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QUINTO SETTIMIO FIORENTE TERTULLIANO

APOLOGETICO

Introduzione e Traduzione a cura di Onorato TESCARI (1951)
VERSIONE ELETTRONICA - CURATA DA AMEDEO MARCHINI 

INTRODUZIONE

1. - Subito dopo la morte di Cristo (avvenuta l'anno 29, 15esimo dell'impero di Tiberio), la sua religione si propagò rapidamente fuori della Giudea, per tutte le parti dell'Impero romano. L'anno 64, in cui ebbe luogo la famosa persecuzione di Nerone contro i Cristiani, essa aveva da un pezzo, come dice Tacito (Annali 15,44,5), fatto irruzione anche nell'Urbe. Cristiani esistevano in Roma al tempo di Claudio (41-54), secondo che attesta Svetonio (Claud. 25,2), il quale parla di misure repressive prese da questo imperatore contro di loro; e secondo che attestano gli Atti degli Apostoli (18,2), dove si narra di un incontro di Paolo, nel 52, a Corinto con i Cristiani Aquila e la moglie sua Priscilla, dovuti uscir di Roma in seguito all'editto dell'imperatore. Inoltre dall'epistola di Paolo ai Romani (15,24), che è del 58, si ricava che da parecchi anni esisteva in Roma una Comunità di Cristiani. Come questa Comunità sorgesse e per opera di chi, è ignoto. Quando Paolo venne a Roma nel 61, trovò Cristiani a Pozzuoli, e Cristiani dall'urbe vennero a incontrarlo a Foro Appio (Atti degli Apost. 28,14 seguenti): durante la dimora in Roma di Paolo, venne a stabilirvisi Pietro. La tradizione congiunse la morte dei due Apostoli durante la persecuzione di Nerone (DUCHESNE, Hist. ancien. de l'église, Paris, 1923, 1-64).

2. - Nei riguardi della nuova religione, che conquistò nel giro di poche generazioni tutto il mondo conosciuto, si presenta subito un problema. Come si spiega che i Romani, i quali si dimostrarono tollerantissimi sempre verso tutte le religioni dei popoli sottomessi (Apol. 24,7 seguenti), furono, invece, tanto severi unicamente verso la nuova religione, da esercitare contro i suoi seguaci le più feroci persecuzioni? Gli è che nessun'altra religione, all'infuori del Giudaismo e del Cristianesimo, professò un'intolleranza irriducibile verso la religione pagana. Senonché, mentre i Giudei limitavano la loro intolleranza a una passiva e pacifica resistenza, i Cristiani, invece, in obbedienza al precetto del Maestro divino, erano animati da un ardente intento proselitistico e battagliero e conquistatore, attentando direttamente all'esistenza stessa della religione romana nelle sue pratiche esplicazioni, e, indirettamente, nella interpretazione dei loro persecutori, all'esistenza stessa dell'Impero.

E invero, per i Romani la pratica religiosa s'identificava con la res publica. è nota la spregiudicatezza con cui i più intelligenti e dotti fra di essi giudicavano delle loro credenze e dei loro riti. Con tutto ciò ne erano osservantissimi, in quanto quelle credenze e quei riti costituivano la parte più venerabile della loro tradizione, fino a un certo punto, della loro stessa storia. è nota, anche, la severità con cui perseguivano i reati contro la religione; e come alla mancata osservanza delle prescrizioni rituali imputassero i più gravi disastri. Pertanto i Cristiani venivano riguardati quali nemici publici dell'Impero: e nemici personali pure degl'imperatori, da quando si era cominciato a onorare questi quali divinità, con forme prescritte, a cui non era lecito rifiutarsi senza incorrere in grave reato. Si aggiunga poi che, oltre che di essere ostili alla religione (Apol. 10-15) e agl'imperatori (ibid. 29-36) e causa di tutte le sciagure inviate dagli dèi (ibid. 40-41), i Cristiani erano accusati di delitti mostruosi e inverosimili: d'infanticidio (ibid. 2, 5, 20; 4, 11, 7;8;9) e cannibalismo (ibid. 7,1; 9,9), d'incesto (ibid. 2,20; 4,11; 7,1; 8,3,7), di adorare una testa d'asino (ibid. 16, 1-4;12), di tutti i delitti (ibid. 2,16).

Persecutori dei Cristiani furono gl'imperatori Nerone (nel 64), Domiziano (nel 95), Marco Aurelio (nel 177), Decio (nel 250), Valeriano (nel 257) e Diocleziano (nel 303). Particolarmente feroci furono le persecuzioni di Nerone, Decio, Diocleziano. è noto come nel 101 Plinio minore, trovandosi a governare la Bitinia, con una sua lettera (10,96) chiedesse all'imperatore Traiano istruzioni sul modo di procedere contro i Cristiani. " Eran soliti radunarsi in un giorno convenuto prima del sole, per recitare alternatamente un carme in onore di Cristo, come di un dio; si obligavano con giuramento a non commettere furti, latrocii, adultèri, a non tradir la fede, a non rifiutarsi di restituire il deposito. Fatto ciò avean costume di separarsi e poi di nuovo riunirsi per consumare un cibo comune e innocente ". Plinio aveva voluto andare a fondo, sottoponendo a "tormento due ancelle, chiamate ministre, e non aveva trovato altro che una superstizione storta, smodata. La cosa gli era sembrata degna di consultazione, in quanto correvan pericolo molte persone di ogni età, di ogni condizione, di entrambi i sessi: ché non solo per le città, ma per i villaggi e i campi si era diffuso il contagio di quella superstizione, che sembrava potersi arrestare ". La risposta di Traiano era stata categorica (se non logica): " I Cristiani non si devono cercare: ma se denunziati e accusati, si devono punire, a meno che non neghino di essere Cristiani, provandolo col fatto, vale a dire, supplicando gli dèi dei Romani. Però le denunzie anonime non devono essere accolte: sarebbe un pessimo esempio e contrario allo spirito del secolo".

Inoltre i Cristiani parevano rinnegare effettivamente la vita, rinunciando a tutto quanto, per unanime consenso, la faceva bella (Apol. 38,3 seguenti; 39,14 seguenti; 42,4 seguenti eccetera). Tutta l'arte greco-romana andava congiunta con quanto essi aborrivano, sia per ciò che contrastava recisamente con la loro fede (rappresentazioni letterarie e plastiche e, in generale, mitiche), sia per ciò che era in assoluta opposizione con il loro costume (oscenità del teatro, crudeltà dei ludi gladiatori eccetera). Il che era indivisibile dalla vita pagana. Onde il giudizio dato su di loro: " odiatori del genere umano " (TACITO, Ann. 15,44,6).

3. - Una procedura determinata e stabile contro i Cristiani non c'era. Come la loro colpa era stata fatta rientrare nel delitto di "lesa maestà" (28,2), così il procedimento punitivo e la gravità dipendeva dal temperamento del persecutore, sopra tutto nelle province più lontane da Roma, e dal grado di resistenza opposta dai perseguitati. Di solito i Cristiani, che cedevano davanti agli orrori dei supplizi comminati, rinnegando la loro religione e adempiendo, a conferma dell'apostasia, a qualche rito, erano risparmiati, ottenendo l'impunità. Coloro, invece, che resistevano (e il martirologio degli eroi di questa Fede autorizza a credere fossero i più), venivano spietatamente fatti morire. Dall'Apologetico apprendiamo che le forme di violentamento e di punizione adoperate contro i Cristiani erano le seguenti: lavori forzati nelle miniere, relegazione nelle isole (12,5), torture e lacerazioni (2,15; 21,28), ungulae, croci, fiamme, decapitazioni, bestie feroci (12,3; 30,7; 49,4; 50,3), lapidazioni, incendi (37,2; De spect. 27).

4. - Per comprendere le difficili condizioni in cui venivano a trovarsi i nuovi convertiti alla religione di Cristo, conviene ancora riflettere sullo stato sociale dei convertiti. Tutta una classe di lavoratori attingeva la vita a risorse intimamente legate alla religione pagana: operai addetti a costruzione di templi, di statuette ed emblemi religiosi, funzionari publici, magistrati, senatori, soldati, la cui vita la religione pagana, sia pure con manifestazioni di puro formalismo, aveva tutta pervasa, talché era impossibile svincolarsi da atti e cerimonie imposti alla carica. Fino a qual punto poteva essere concesso a costoro, una volta convertiti, di continuare senza colpa nella consueta attività? Aggiungasi (più importante ancora) la classe delle persone colte, in cui ben presto la novella religione cercò e annoverò in bella quantità i suoi seguaci. Costoro avevano acquistata la loro cultura nelle scuole di grammatica e di retorica pagane, che erano rimaste le stesse (e le stesse continuarono ad essere per parecchie generazioni): dove si erano letti e studiati i poeti più famosi (scuola di grammatica), e coltivata, con lo studio dei prosatori più celebri, l'arte retorica, intesa a dare il possesso dell'eloquenza di parata e, specialmente, giudiziaria (scuola di retorica). è vero, quei poeti erano impregnati di voluttuarismo e mitologia, quanto mai contrastante con la purezza di fede e di vita imposta dalla nuova religione; ma erano pur anche i rappresentanti di un'arte e di una bellezza non sempre sconcia e riprovevole. è vero, la filosofia pagana era spesso in antitesi assoluta con la nuova Parola, affermante l'esistenza di un Dio unico, puro Spirito, il cui Figliuolo erasi incarnato ed era morto per la salvezza degli uomini: ma conteneva anche quanto di più vero e di più alto aveva l'umano pensiero potuto attingere con le sole sue forze, prima che l'ali ne impennasse una nuova, divina inspirazione. Era dunque necessario, per essere veri seguaci del nuovo Verbo, rigettare in pieno tutta l'arte pagana, tutto il pensiero pagano? spogliarsi in pieno di tutta una cultura, che pure aveva i suoi pregi? Era essa proprio inconciliabile con la dottrina del Cristo e con la vita da essa predicata e imposta? D'altro lato, una rinunzia del genere, chi anche avesse voluto attuarla, era essa possibile?. Molto interessante torna a questo proposito anche quello che si legge in una lettera di San Girolamo diretta a Eustochio (XXII 30 Hilberg: CSE 54, p. 189 sg.), la figliuola della nobilissima matrona romana, Paola, e sua figliuola spirituale: "Anni fa (nel 374)... avviandomi a Gerusalemme, non potevo privarmi della biblioteca, che mi ero formata a Roma con grandissimo zelo e fatica. Pertanto io, misero, digiunavo col pensiero di leggermi Tullio. Dopo frequenti notti passate vegliando, dopo le lagrime, che il ricordo dei passati trascorsi mi traeva dall'ime viscere, prendevo in mano Plauto. Se talora, ritornando in me stesso, prendevo a leggere un profeta, quel linguaggio incolto mi metteva orrore; e poiché con gli occhi accecati la luce non vedevo, pensavo che la colpa fosse, non degli occhi, ma del sole. Or mentre per tal modo l'antico serpente si prendeva gioco di me, circa a metà quaresima, una febbre, entrandomi nelle ossa, il corpo esausto invase; e senza requie alcuna... così le misere membra consumò, che appena aderivo alle ossa. Frattanto si preparavano le esequie e, ormai freddo tutto quanto il corpo, il calore vitale dell'anima nel povero petto, esso solo tiepido, palpitava. Allorquando, rapito improvvisamente in spirito, vengo tratto al tribunale del Giudice; dove tanto lume e tanto splendore v'era per la chiarità dei circostanti, che, abbattutomi in terra, guardare in su non osavo. Interrogato della mia condizione, di essere cristiano risposi. E quello, che, stava seduto: - Tu menti - disse; - tu un ciceroniano sei, non un cristiano: dov'è il tuo tesoro, ivi ~ il tuo cuore (MATTEO, 6,21). - Immediatamente ammutolii e tra le staffilate (ché aveva ordinato che io venissi battuto), dal bruciore della coscienza più che di queste mi sentivo tormentato... Tuttavia cominciai a gridare e a dire piangendo forte: Abbi pietà di me, o Signore, abbi pietà di me (Ps. 50,1). Questa voce risuonava tra le staffilate. Finalmente, prosternandosi alle ginocchia del presidente, gli astanti pregavano che perdono concedesse egli alla giovinezza, che possibilità di pentimento all'errore accordasse: avrebbe applicato la tortura, se libri appartenenti alla letteratura dei Gentili avessi io quando che fosse letti. - Io che, in così grave congiuntura costretto, avrei voluto promettere ben altro, cominciai a giurare e a dire (il suo nome chiamando in testimonio): O Signore, se mai possederò libri mondani, se li leggerò, ti avrò rinnegato. - Messo in libertà su questo giuramento, ritorno fra gli uomini; e, con meraviglia di tutti, apro gli occhi inondati di tanto profluvio di lagrime, da persuadere anche gli increduli che da dolore provenivano. Né in verità era stato assopimento quello o sogno vano, onde siamo spesso illusi. N'è testimonio il tribunale, davanti al quale giacqui, n'è testimonio il giudizio, che mi riempì di paura... l'avere avute le spalle livide, l'essermi dei colpi risentito dopo il sonno; e l'avere in seguito letto le cose divine con tanto ardore, con quanto non avevo le cose mortali lette ".

Più tardi il suo fiero avversario, Rufino, moveva al Santo accusa di spergiuro, per non aver tenuto fede al giuramento fatto da lui nel sogno di cui sopra, di non toccare più libri di Gentili: il che Rufino ricavava dal fatto che Girolamo citava sovente da quei libri. " Ho promesso - questo risponde - che non avrei per l'avvenire letto libri mondani: si tratta di una promessa riguardante il futuro, non di un'abolizione dei ricordi passati. 'Come fai - dici tu - a ritenere quello che da tanto tempo non rileggi?'... - Chi di noi non si ricorda della sua infanzia? Io almeno... mi ricordo di avere, fanciullo, scorrazzato per le cellette dei servi, di avere trascorso in giochi i giorni di vacanza... per farti stupire anche più, ora che ho i capelli bianchi e la fronte calva, spesso mi vedo, in sogno, con la mia brava chioma e vestito di toga, declamare davanti al maestro di retorica la mia povera controversia. Svegliato, mi congratulo con me stesso di essere liberato dal pericolo del declamare. Credimi, molto ricorda con esattezza l'infanzia. Se tu avessi appreso le lettere, odorerebbe l'anfora del tuo ingegnuccio di ciò di cui fu una volta imbevuta> (ORAZIO, Epist. 1,2, 69 sg.) eccetera (Adv. Rufin. 1,29; 485 sg. MIGNE).

Con ciò San Girolamo parrebbe affermare di non avere letto più, dopo quel sogno, libri profani, di non aver toccato più il suo Cicerone, il suo Plauto. Dovremo credergli in tutto e per tutto?

5. - Orbene, nella vita cristiana si determinarono, a proposito della cultura pagana, ben presto due tendenze, l'una intransigente, l'altra conciliante, che riconobbe il buono, che pur nell'arte e nel pensiero antico aveva diritto alla conservazione, e lo conservò e, come diremo, se ne giovò per la sua stessa propaganda. Fu riconosciuto lecito fare, nei riguardi della cultura antica, quello che gli Ebrei avevano fatto nell'uscire dall'Egitto. " Come... gli Egiziani non solo avevano idoli... che il popolo d'Israele detestava... ma anche vasi e ornamenti d'oro e d'argento e vesti, che quel popoìo, uscendo dall'Egitto rivendicò a sé... per un utile migliore... così le dottrine tutte dei Gentili non solo contengono false e superstiziose finzioni... che ciascuno di noi, nell'atto di uscire, guidato da Cristo, dalla società dei Gentili, deve abominare... ma anche discipline liberali, assai vantaggiose alla verità, e precetti di costumi, utilissimi... Ora codesto, quasi loro oro e argento... nell'atto in cui si separa dalla loro miserabile società, deve il Cristiano portar loro via " (Sant'AGOSTINO, De doctr. chr. 2,60).

6. - Il Cristianesimo, nato in Oriente, si diffuse da prima fra gente di parlata greca. Anche in Occidente i primi Cristiani furono reclutati tra immigrati orientali, che parlavano greco. Del resto la lingua greca era da per tutto compresa e adoperata accanto al linguaggio nazionale. Si comprende, pertanto, come questa lingua sia stata la lingua prima della nuova religione e de' suoi primi documenti. In greco leggevasi la Bibbia tradotta dai Settanta. In greco leggevasi il Nuovo Testamento, in greco Paolo aveva scritto le sue Epistole. Anche in Africa, dove la Letteratura latina cristiana primamente si sviluppò, q uesta fu nelle sue origini di lingua greca. E quando la lingua latina si affermò (verso la fine del secondo secolo), opere cristiane scritte in questa lingua venivano contemporaneamente (come dimostra Tertulliano) composte anche in greco. Del resto ben presto le principali produzioni dell'Oriente greco vennero tradotte in latino: l'Epistola ai Corinti di Papa Clemente, il Pastore di Erma (fine primo o inizio secondo secolo), la Didaché (fine primo o inizio secondo secolo), il trattato d'Ireneo Contro l'eresie (secondo secolo) eccetera.

7. - Senonché, a mano a mano che la nuova religione si estendeva e guadagnava proseliti, per coloro che, meno dotti, non erano in grado di comprendere il greco, si resero necessarie traduzioni della Bibbia in latino (il che avvenne nel corso del secondo secolo). Se i traduttori dall'ebraico in greco erano numerabili, i traduttori dal greco in latino diventarono ben presto innumerevoli (Sant'AGOSTINO, De doctr. chr. 2,16). Ogni Comunità o gruppo di Comunità possedeva versioni proprie, di vario valore: che durarono in uso anche dopo la riforma geronimiana. Si trattava di versioni letterali, condotte per uno scopo meramente pratico, senza ombra di preconcetto letterario. Tra le numerosissime versioni latine della Bibbia, speciale importanza ebbe quella denominata Itala. La conobbe Agostino durante il suo soggiorno in Italia, e l'adottò, ritenendola superiore ai testi congeneri africani (De doctr. chr. 2,15). Ai primi monumenti letterari cristiani latini sono ancora da aggiungere libri liturgici, il Simbolo degli Apostoli, gli Atti dei Martiri (o Processi verbali del martirio, redatti per uso e ricordo della Comunità).

A dare un'idea di questi Processi verbali (non tutti di uguale valore), non sarà fuori di proposito riprodurre quello riguardante i Martiri Scillitani, vale a dire il martirio incontrato il 17 luglio del 180 dai sei di Scilli, in Africa, sotto l'imperatore Commodo (Marco Aurelio, l'imperatore filosofo, che quella persecuzione aveva iniziata, era morto giusto quattro mesi prima). Chi codesta scrittura stese, lo fece senza la più lontana ombra d'intento apologetico, per il solo scopo di conservare, nella tradizione della Comunità, il ricordo dei Santi. La forma n'è al tutto semplice, scarna, anzi monotona.

"Consoli Presente (questo per la seconda volta) e Claudiano, il 17 luglio, a Cartagine, tradotti nella sala delle udienze, Sperato, Nartzalo e Cittino, Donata, Seconda, Vestia, il proconsole Saturnino disse: Voi potete meritarvi l'indulgenza dell'imperatore, nostro signore, qualora mettiate giudizio.

Sperato disse: Non abbiamo fatto del male mai; mai ci siamo prestati a ingiustizia; mai abbiamo detto parole ingiuriose, anzi, maltrattati, abbiamo ringraziato: perciò noi rispettiamo il nostro imperatore.

Il proconsole Saturnino disse: Noi anche siamo religiosi e semplice è la nostra religione e giuriamo per il Genio del nostro signore, l'imperatore, e facciamo suppliche per la sua salvezza: cotesto dovete fare voi pure.

Sperato disse: Se mi presterai orecchio paziente, ti espongo io il mistero della semplicità.

Saturnino disse: Tu ti accingi a dir male dei nostri riti: non ti presterò orecchio. Giura piuttosto per il Genio del signor nostro, l'imperatore.

Sperato disse: Io l'impero di questo mondo non riconosco, ma servo piuttosto a quel Dio, che nessuno degli uomini vide, né vedere può con questi occhi. Non ho commesso furto, ma, se compro qualche cosa, pago la tassa, poiché riconosco il signor mio, il re dei re, l'imperatore di tutte le genti.

Il proconsole Saturnino disse agli altri: Smettete di essere dell'opinione di costui.

Sperato disse: Mala opinione è commettere omicidio, dire falso testimonio.

Il proconsole Saturnino disse: Rinunziate a partecipare alla pazzia di costui.

Cittino disse: Noi non abbiamo altri cui temiamo, all'infuori del Signore Dio nostro, che è nei cieli.

Donata disse: Onore a Cesare come Cesare, ma timore a Dio.

Vestia disse: Sono cristiana.

Seconda disse: Quello che sono, quello voglio essere.

Il proconsole Saturnino disse a Sperato: Persisti ad essere cristiano?

Sperato disse: Sono cristiano. - E tutti consentirono con lui.

Il proconsole Saturnino disse: Volete tempo a deliberare?

Sperato disse: In una cosa così giusta, non vi è da deliberare.

Il proconsole Saturnino disse: Che cosa c'è nella vostra cassa?

Sperato disse: I libri e le Epistole di Paolo, uomo giusto.

Il proconsole Saturnino disse: Abbiatevi trenta giorni di tempo; ricordatevene.

Sperato di nuovo disse: Sono cristiano. - E con lui tutti consentirono.

Il proconsole Saturnino lesse dalla tavoletta la - sentenza:

Sperato, Nartzalo, Cittino, Donata, Vestia, Seconda, rei confessi di vivere secondo il rito cristiano, poiché offerta loro la possibilità di ritornare al costume romano, hanno persistito nella loro ostinazione, ordino che siano puniti di spada.

Sperato disse: Rendiamo grazie a Dio.

Nartzalo disse: Oggi, martiri, siamo in cielo. Rendiamo grazie a Dio.

Il proconsole Saturnino fece annunziare per mezzo del banditore: ho fatto condurre al supplizio Sperato, Nartzalo, Cittino, Vestia, Donata, Seconda.

Tutti quanti dissero: Rendiamo grazie a Dio. E così tutti insieme sono stati coronati e regnano col Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen".

8. - Come s'è detto, a non romperla definitivamente con la cultura dei secoli trascorsi costrinse primo la quasi impossibilità di farlo, dato il passato di una nuova e numerosa categoria di Convertiti, provenienti dalle classi più colte, i quali non potevano spogliarsi dell'istruzione ed educazione della scuola, onde s'era per tanti anni e per concorde esigenza della società nutrito il loro pensiero; poi indusse la convinzione che, spogliata del caduco e dell'immorale, quella cultura racchiudesse un tesoro, che non meritava di essere rigettato, di cui anzi poteva utilmente avvalersi la nuova Cultura, nata con la nuova Religione. Tanto più che la Letteratura pagana era arrivata a uno stato di vuoto sconcertante (si pensi a Frontone, Apuleio, Gellio eccetera): unica sopravviveva vitale la retorica, che di sé improntava tutte le forme dello scrivere; ma che, lungi dal riempire quel vuoto, lo faceva maggiormente risaltare entro la sua veste di puro formalismo.

Senonché quell'arte retorica, fine ultimo della scuola, si rivelò ben presto preziosa, se volta ad un fine che non fosse vano e fittizio. Ben presto la nuova religione ebbe a difendersi dagli assalti, non solo dei potenti della Terra, ma, anche, di altri avversari, forniti di altre armi. Se a far cessare (sia pure in parte o apparentemente) la pratica della religione cristiana, potevano valere le persecuzioni e le condanne capitali, per sradicarne la fede dalle intelligenze più colte, si rese necessaria, e fu adoperata, un'altr'arma, quella della polemica orale e scritta: onde la necessità di opporre per la difesa l'uso della stessa arma, la confutazione e l'apologia. Per ciò stesso veniva dato alla nuova Letteratura un contenuto di pensiero ben altrimenti solido e sostanzioso, e in processo di tempo creavansi un Tertulliano, un Cipriano, un Ambrogio, un Agostino. Fu appunto a metà del secondo secolo che la nuova religione prese ad essere difesa dagli Apologisti: che, venuti dalla scuola, si avvalsero per la nuova battaglia delle risorse della cultura antica; e agli avversari, sprezzatori delle disadorne traduzioni bibliche, opposero scritti che s'imponevano alla considerazione e alla stima generale per dei pregi, oltre che di pensiero, di forma. Il che non fu scarso vantaggio. Come San Girolamo (s'è detto sopra), anche Sant'Agostino confessa che in su le prime, quando attese a leggere la Scrittura in latino, gli " parve indegna di essere comparata con la dignità tulliana " (Conf. 3,9 ). E se ne sentì offeso e respinto. E Lattanzio (Inst. 5,1,15) attesta: " Questa è sopra tutto la causa per cui presso i sapienti e i dotti... la Scrittura Santa non trova credito, perché i profeti hanno parlato in forma semplice e comune, come si fa col popoìo. Pertanto sono disprezzati da coloro, i quali non vogliono udire o leggere nulla, se non è elegante ed eloquente ". E Arnobio stesso (1,59) conferma l'accusa di barbarismi e solecismi, onde sarebbe deturpata, secondo gli avversari, la Sacra Scrittura. La preoccupazione dell'arte nelle opere dei maggiori scrittori latini cristiani, se pur non disgiunta mai dalla visione del fine ultimo, che è quello di illustrare, ammaestrare, combattere, è costantemente presente. L'arte e la cultura pagana riecheggiano i loro scritti da per tutto, spesso a quella attingendo senza nemmeno più veli, come dimostra (per recare un esempio) il De officiis di Sant'Ambrogio, modellato su la classica opera ciceroniana.

9. - Da non più di un secolo la Letteratura latina cristiana è ritenuta degna dai filologi di essere collocata accanto a quella profana, della quale è giustamente considerata continuazione. Prima si affettava per essa disprezzo o compatimento, quasi che dovesse interessare unicamente i teologi: eredità degli Umanisti, che, invasati d'entusiasmo per la Letteratura latina classica, avevano giudicato sfavorevolmente quella cristiana. Il che era ingiusto, se pur non poteva negarsi che la preoccupazione della forma non fosse stata negli scrittori cristiani precipua, più assai pensosi del contenuto che della lingua. Senonché oggi, a parte che pur nelle valutazioni estetiche codesta separazione fra contenuto e forma ha assunto ben altro valore come criterio di giudizio, non si troverà più studioso alcuno, che prescinda dal valore estetico vero e proprio nel giudicare gli scritti di un Girolamo, di un Ambrogio, di un Agostino: che degli espedienti di espressione, appresi nella scuola, seppero valersi da maestri, talché non meno dei loro predecessori classici, sono degni di essere reputati e chiamati grandi scrittori. A parte, dunque, che la Letteratura cristiana é indissolubilmente legata con la storia della più grande rivoluzione spirituale, che mai siasi attuata nel mondo, qual è la trasformazione per mezzo del Cristianesimo operatasi nella società universale: e con la storia delle lotte lunghe e accanite combattute e degli ostacoli superati anche, e sopra tutto, con l'arma della parola, in cui rifulsero difensori, non già di una tesi politica o di interessi circoscritti, ma di postulati e interessi di portata assai più vasta di quelli propugnati da un Demostene e da un Cicerone: a parte ancora che essa Letteratura cristiana è indissolubilmente connessa con la storia civile e politica, quale venne foggiandosi e radicalmente evolvendosi attraverso i secoli che seguirono: la Letteratura latina cristiana deve considerarsi quale continuazione inscindibile di quella profana, sia perché composta nella stessa lingua, che, per opera sua, si continuò per l'eternità, sia perché si valse delle stesse forme letterarie, consacrate ormai dall'uso di secoli, sia, in fine, anche, perché dei tesori del pensiero profano si nutrì essa ai suoi fini, ed efficacemente contribuì a conservarli e perpetuarli.

Enumerare gl'ingegni, che da un pezzo ormai lavorano nel campo della Letteratura latina cristiana con non minore interesse e scrupolo, che non si faccia da altri in quello della Letteratura latina profana, sarebbe lungo. Anche, in servigio di essa, si sono curate edizioni insigni di testi, con intento severamente critico. Se tale non può dirsi la pur preziosissima raccolta del MIGNE (Patrologie Latine dalle Origini al 1216, in 221 volumi in quarto, Paris 1844-55: nel 1862-64 furono publicati ancora 4 volumi di indici), è tuttora in corso di publicazione il Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum per cura dell'Academia Litterarum Vindobonensis, che dovrà comprendere tutti gli scrittori ecclesiastici fino al settimo secolo incluso.

10. - L'inizio della vera e propria attività letteraria latina cristiana ci si appalesa con due nomi, TERTULLIANO e MINUCIO FELICE: il secondo, autore di uno scritto apologetico di grandissimo interesse. Si tratta di un breve dialogo in 40 capitoli, intitolato Octavius, scritto da un MINUCIO FELICE; dove in forma eletta è da un Ottavio difesa la religione cristiana dalle accuse che ad essa muove un non credente, Cecilio Natale. Intorno all'importante operetta si muovono numerosi problemi, concernenti la patria degli interlocutori, la condizione loro e l'intento dell'opera; e, sopra tutto, la priorità di tempo fra essa e l'Apologetico di Tertulliano, con cui ha rapporti concettuali e formali strettissimi. Il dibattito su codesto ultimo punto dura tuttora fra gli studiosi; né pare siasi raggiunta una conclusione che appaghi. Se mi è permesso esprimere semplicemente un'opinione, senza entrare nella difficile questione, riterrei doversi propendere per la priorità dell'opera di Tertulliano: rivelandosi egli tale personalità, da rendere difficile pensare che nel suo Apologetico abbia riecheggiato lo scritto di un suo predecessore.

A Tertulliano pare che anche San Girolamo conceda la priorità nella serie degli scrittori latini cristiani. Il quale scrive (De vir. ill. 53): Tertullianus presbyter nunc demum primus post Victorem et Apollonium ponitur. VITTORE nello stesso scritto geronimiano (34) è ricordato come tredicesimo vescovo di Roma, che " avrebbe scritto su la questione della Pasqua e altri opuscoli ". Circa APOLLONIO, che subì il martirio sotto Settimio Severo (193-211), dai documenti che si conservano del suo martirio e dalle testimonianze di Eusebio (Histor. eccles. 5, 21) e di San Girolamo (De vir. ill. 42), non siamo in grado di affermare nulla nei riguardi del suo scritto. A ogni modo, da come si esprime quest'ultimo, " Tertulliano viene ora primo, finalmente " (vale a dire, dopo il lungo elenco di scrittori ebrei e greci), non pare che egli abbia dubbi circa il collocare come primo degli scrittori latini, in ordine di tempo (e d'importanza), Tertulliano: se pure circa il tempo, in cui visse e scrisse Minucio Felice, non sembra aver egli avuto idee molto sicure.

11. - QUINTO SETTIMIO FLORENTE TERTULLIANO nacque, probabilmente, tra il 150 e il 160, a Cartagine, città magnifica e doviziosa. Sorta, al posto dell'antica (distrutta dai Romani nel 146 a.C.), da una colonia dedottavi da Cesare nel 44, era divenuta in breve la città più importante della regione per il commercio e la magnificenza: ricca di templi, di teatri, di bagni, di scuole, come si ricava dall'opera stessa di Tertulliano. Quando e per opera di chi vi fosse stato introdotto il Cristianesimo, non sappiamo: probabilmente la fonte risaliva a Roma. Però quando nel 180 anche là si fece sentire la persecuzione, resa illustre dai martiri di Scilli, i Cristiani erano in numero assai grande. Diciassette anni dopo Tertulliano poteva scrivere: " Nei campi, nei castelli, nelle isole si trovano Cristiani, di ogni sesso, di ogni età, di ogni condizione " (Apol. 1,7). " Siamo di ieri, e già abbiamo riempito tutti i vostri luoghi, città, isole, castelli, municipii, ... gli accampamenti stessi, ... il palazzo, il senato, il foro: solo abbiamo lasciato a voi i templi " (ibid. 37,4). E più tardi ancora, rivolgendosi al proconsole d'Africa, Scapula: "Se ti piacerà di fare qui lo stesso (di quanto ha fatto in Asia Ario Antonino), che farai di tante migliaia di uomini e di donne ... di ogni età, di ogni dignità, che ti si presenteranno? Di quanti fuochi, di quante spade avrai bisogno? Che patirà la stessa Cartagine, che tu dovrai decimare, quando ognuno riconoscerà qui i suoi parenti, i suoi camerati, forse uomini del tuo ordine, e matrone... e amici di tuoi amici? Risparmia dunque te stesso, se non noi. Risparmia Cartagine, se non te stesso " (Ad Scap. 5).

Tertulliano, stando a San Girolamo (De vir. ill. 53: cfr. Apol. 9,2), " figlio di un centurione proconsolare ", fu parte della sua vita pagano. Lo confessa egli stesso. Parlando di rappresentazioni teatrali riprovevoli: " Ho veduto un tempo... e ho riso ", dice (Apol. 15,5). E parlando della nuova fede da lui abbracciata, " Anch'io un tempo mi sono riso di tutto ciò. Sono uno dei vostri. Si diventa, non si nasce cristiani " (ibid. 18,4). L'affermazione ritorna in De testim. animae: " Diventare suole cristiana l'anima, non nascere ": che parrebbe contrastare con l'altra sua famosa, dell'"anima che è naturalmente cristiana " (Apol. 17,6). Finalmente ancora (De paenit. 1,1): " Codesta razza d'uomini, a cui in passato appartenni anch'io ".

Come sia avvenuta la sua conversione, ignoriamo. Il che è quanto mai deplorevole: data la natura singolare dell'uomo, un confronto con altre conversioni analoghe, con quella per esempio di Sant'Agostino, sarebbe riuscito interessante. Una parte assai considerevole nella sua conversione deve avere avuto il motivo intellettuale, il ragionamento. Coloro che hanno parlato di lui, ne mettono in risalto la grande cultura filosofica e giuridica, cultura che trova perfetto riscontro ne' suoi scritti. Un'intelligenza acuta e raziocinativa come la sua, in possesso di una così vasta conoscenza del pensiero antico, non poteva non convincersi che, di fronte al nuovo Verbo del Nazareno, gran parte di esso pensiero diventava insostenibile. Lo spettacolo, poi, meraviglioso di tante persone di ogni età, di ogni sesso, di ogni condizione, che con indomito coraggio affrontavano serenamente i più atroci supplizi in vista di una vita oltre la morte, che i Saggi della sapienza corrente irridevano come sogno fatuo, lo persuase della presenza di una forza sopranaturale in essi: e nel fatto stesso dell'incontenibile propagarsi di una religione, che non godimenti prometteva in questa vita, ma sacrifici e rinunzie (cfr. Apol. 39 e Ad Scap. 5). Onde l'accento di sfida in lui: " Più ci mietete, più numerosi diventiamo: il sangue dei Cristiani è semenza " (Apol. 50,13).

La nuova religione Tertulliano abbracciò con entusiasmo. Difficoltà e pericoli indubbiamente non mancarono nemmeno a lui, sebbene non ci consti che egli abbia dovuto patire in causa della persecuzione. Che egli, però, fosse dispostissimo ad affrontarla senza titubanze, fa fede il coraggio con cui la impugnò nel campo della discussione aperta, dimostrandone l'ingiustizia e la inanità, contro la classe dotta del suo tempo, in un momento in cui essa persecuzione infieriva nel suo stesso paese.

Tertulliano fu prete (lo attesta San Girolamo): ed ebbe moglie (lo dimostra un suo scritto diretto alla moglie). Nella lotta in difesa del Cristianesimo egli portò " un temperamento di fuoco " (la felice espressione è del BOISSIER, La fin du Paganisme, p. 222), che ignorò ogni compromesso con se stesso e con altrui, che lo portò a un rigorismo spietato, così da impersonare quella tendenza, di cui abbiamo fatto cenno, che non ammetteva possibilità di transigere come che fosse con la vita, per molti aspetti, ancora necessariamente informata a costumanze pagane.

Su i cinquant'anni (pare) Tertulliano passò alla setta dei Montanisti. Aveva questa avuto Origine nella Frigia, per opera di un certo Montano, che era stato, si diceva, prima sacerdote di Cibele e passava per invasato dallo Spirito Santo, per sua bocca rivelantesi al mondo. Con Montano erano due donne, Priscilla e Massimilla, esse pure profetanti. Un breve cenno di questa eresia, che, tra l'altro, impugnava la liceità delle seconde nozze (onde, particolarmente, Tertulliano fu considerato eretico), si legge in Sant'Agostino (De haeres. 86): donde si ricava che in Africa gli adepti avevano finito per chiamarsi Tertullianisti, dal nome del più celebre seguace della setta; e durante la vita di Agostino a Cartagine erano scomparsi. Poiché la Chiesa di Roma contrastò l'eresia, Tertulliano assunse un atteggiamento decisamente ostile al Cattolicesimo, contro il quale scrisse e combattè.

La morte di Tertulliano, secondo la citata testimonianza di San Girolamo, sarebbe avvenuta in estrema vecchiaia. Molto egli scrisse. Undici dell'opere sue andarono perdute: trentuna ci sono pervenute. Esse possono essere distribuite in Scritti apologetici, Scritti contro le eresie, Scritti dogmatici, Scritti morali. 

Appartengono alla prima categoria di Scritti apologetici i seguenti:

1) Ad nationes (del 197). Non differisce sostanzialmente dall'Apologetico, con cui ha molti argomenti in comune, spesso sviluppati con le stesse parole. Vi si impugnano, come in quello, i costumi dei Pagani, e si difendono quelli dei Cristiani.
2) Apologetico (se ne parlerà più avanti).
3) De testimonio animae (posteriore all'Apologetico). Si confermano le verità cristiane attingendo le testimonianze dell'anima stessa (Apol. 17,4), dell'anima naturalmente Cristiana)> (ibid. 6).
4) Ad Scapulam (del 212). Si esorta il "proconsole d'Africa, Scapula, a desistere dalla persecuzione contro i Cristiani, dimostrandone l'ingiustizia e minacciando al persecutore la punizione di Dio.
5) Adversus Judaeos (di prima del Montanismo). Vi si prova in base alle profezie che i Giudei hanno torto a non credere che Cristo sia venuto ancora (Apol. 21,15). Cristo è già venuto.

Alla seconda categoria degli Scritti contro le eresie appartengono i seguenti:

1) De praescriptione haereticorum (di verso il 200). Si impugna il diritto che gli eretici si arrogano di valersi della Santa Scrittura per difendere i loro errori. La interpretazione di questa spetta di diritto alla Chiesa fondata dagli Apostoli, dalla quale gli eretici si sono distaccati.
2) Adversus Marcionem (di verso il 208; dell'opera, edita tre volte vivente l'autore, possediamo l'ultima edizione). Si prova, contro l'avversario, che non voleva riconoscere l'identità del Dio del Vecchio e del Nuovo Testamento, che si tratta di un'unica divinità.
3) Adversus Hermogenem (del 200-206). Lo scritto è diretto contro un cattivo pittore e cattivo filosofo, che faceva eterna la materia, come Dio.
4) Adversus Valentinianos (posteriore all'opera precedente). Tertulliano motteggia sulle credenze dei seguaci dello gnostico Valentiniano, che a spiegare la creazione ammetteva l'esistenza di esseri fantastici, gli Eoni.

Alla terza categoria degli Scritti dogmatici appartengono i seguenti:

1) De Baptismo (anteriore al periodo montanista). Vi si espone la intera dottrina del Sacramento di cui una certa Quintilia aveva contestato la necessità.
2) Scorpiace (verosimilmente del 213).
3) Adversus Praxeam (del periodo montanista). Un tale Praxea sosteneva che il Padre in persona era disceso nel grembo della Vergine, e da Essa era nato, ed Esso aveva patito: insomma il Padre essere Gesù Cristo. Tertulliano ne confuta l'eresia.
4) De carne Christi (forse del periodo montanista, anteriore allo scritto seguente). Vi si dimostra che reale fu la carne, onde Cristo fu rivestito, e che Egli l'ebbe da Maria. Questo alcuni eretici negavano.
5) De carnis resurrectione (forse del periodo montanista). Vi si difende la realtà di questa resurrezione, in base al fatto che la carne merita di risorgere; può, mercè l'onnipotenza di Dio; risorgere, deve risorgere.
6) De anima (del periodo montanista). Vi si discorre della natura dell'anima, dei suoi predicati, onde provenga, quale ne sia la sorte dopo la morte. Particolare notevole: Tertulliano crede in una certa corporeità dell'anima e ne ammette il traducianismo.

Rientrano nella categoria degli Scritti morali i seguenti:

1) De oratione (anteriore al periodo montanista). Vi si commenta l'orazione domenicale e si discorre dell'efficacia della preghiera e del modo con cui dev'essere fatta.
2) De paenitentia (di verso il 204). Vi si tratta della penitenza, alla quale Dio condiziona la remissione dei peccati: di quella anteriore al battesimo e di quella posteriore, qualora, dopo il battesimo, si sia peccato.
3) De pudicitia, composto contro un editto di Papa Callisto (217-222), che concedeva il perdono ai peccati di fornicazione e di adulterio, peccati che il montanista Tertulliano afferma non poter ottenere remissione.
4) De cultu feminarum (posteriore al De spectaculis). Vi si combatte l'acconciamento delle donne, non conforme alla modestia cristiana.
5) De virginibus velandis. Lo scrittore, che vi si rivela montanista, esige che alle fanciulle sia esteso l'uso, cui si conformavano le donne maritate, di portare in chiesa il velo, come aveva prescritto l'Apostolo (Ad Cor. 1 2,5). Tertulliano aveva trattato lo stesso tema anche in greco.
6) Ad uxorem (di fra il 203 e il 207). è un'esortazione alla moglie a non rimaritarsi, nel caso che egli muoia; a non sposarsi, se mai, con un Pagano.
7) De exhortatione castitatis. L'autore, montanista, consiglia un amico, rimasto vedovo, a non risposarsi (" il secondo matrimonio non merita di essere chiamato altrimenti che una specie di stupro ": capitolo 9).
8) De monogamia (anche del tempo di Papa Callisto). Vi sono, secondo la dottrina montanista, condannate le seconde nozze, contro l'opinione dei Cattolici.
9) De ieiunio. Vi si difende il rigorismo dei Montanisti a proposito del digiuno, contrapponendolo alla larghezza dei Cattolici.
10) Ad martyras (forse del 197). Vi si consolano i Cristiani che si srovnno in prigione, e si esortano a mantenersi fermi nella professione della loro fede.
11) De patientia (del 202-203). La pazienza è per il Cristiano conseguenza della sua fede, in quanto vale obbedienza a quello che Dio dispone. Di questa virtù sono esposti i meriti e l'utilità.
12) De spectaculis (forse del 197). Gli spettacoli sono assolutamente interdetti ai Cristiani, perché immorali, o perché connessi a una festa o a un rito o a un luogo pagano.
13) De corona (del 211). In occasione della distribuzione di un donativo ai soldati, uno di questi si presentò a riceverlo tenendo la corona in mano, non sul capo, come voleva il costume, scusandosi col dire che era cristiano. Tertulliano difende contro le altrui critiche l'operato del soldato.
14) De fuga in persecutione (del periodo montanista). Tertulliano afferma la illiceità della fuga durante la persecuzione.
15) De idololatria. Secondo Tertulliano montanista, peccano di idolatria quanti servono in qualche modo al culto degli dèi: astrologhi, maestri di letteratura, fabricatori e negozianti di idoli. La necessità di guadagnarsi la vita non scusa.
16) De pallio (forse del 209-211). Si tratta di uno scritto di Tertulliano montanista molto discusso e d'interpretazione oscura. Per marcare il proprio mutamento spirituale, il proprio distacco dal mondo, Tertulliano aveva mutato la toga romana con il pallio greco.

12. - Tocchiamo ora dell'opera, contenuta nel presente volume. Il WALTZING è d'opinione (come si ricava, secondo lui, dall'Apologetico) " che una legge speciale... emanata sotto Nerone (Apol. 4,4 e 5,3), rinnovata o confermata a più riprese nel corso dei due primi secoli (ibid. 2,6 e 5,4), vietava sotto pena di morte la professione del Cristianesimo: non licet esse vos ". Dal rescritto (che abbiamo sopra riportato a p. x) di Traiano alla lettera di Plinio, appare che questo imperatore introdusse un'attenuazione nella prassi, sebbene (come rileva nella sua Apologia, 2,6 sg. Tertulliano) egli cadesse in una ben strana contradizione. 'O i Cristiani erano colpevoli: in tal caso perché non si dovevano ricercare? O non lo erano: perché allora si dovevano condannare?'. Nel 197 (imperatore Settimio Severo) in Cartagine la persecuzione aveva preso a infierire. Le prigioni erano piene di Cristiani. Tertulliano, dopo averli rincorati con lo scritto Ad martyras e avere composto il trattato Ad nationes, per difendere la religione cristiana di fronte ai pagani, scrisse l'Apologetico, che vuole essere un'arringa diretta ai governatori e ai giudici, i quali il diritto di difesa non concedevano ai Cristiani tradotti davanti a loro. Quello, pertanto, che i Cristiani accusati non potevano dire, dice in questo discorso Tertulliano, passando in rassegna la massa delle accuse a loro rivolte. Senonché l'oratore non si limita a confutare le accuse, a difendere gli accusati: ma le accuse ritorce, ma gli accusatori provoca e sfida, mettendo a nudo l'assurdità della loro religione (10-15), la disonestà dei loro costumi, provando che proprio essi sono rei delle nefandezze che attribuiscono ai Cristiani (6-9), la loro stessa impotenza, se i Cristiani un brutto giorno, invece di rispondere alle ingiuste persecuzioni col perdono, si contassero e reagissero (37,3). E codesto fa, non invocando l'autorità di un partito, di una dottrina filosofica: sì in nome della Verità, della sua persona stessa, che espone alla vendetta; in nome della sua altezza morale, in una parola, della sua superiorità intellettuale e spirituale. Onde il fascino, che da questo scritto emana, e l'ammirazione, di cui fu per tutti i secoli circondato.

Indubbiamente, anche per quel che concerne le argomentazioni dell'Apologetico, ad apprezzarle al loro giusto valore, si dovrà non prescindere dal criterio storico. Per esempio la parte che riguarda le assurdità e la insostenibilità della religione e ideologia pagana, è certo roba sorpassata. Anche: sopra tutto nelle ritorsioni, la logica non è sempre serrata; talora tradisce lo sforzo. Né mancano ingenuità, come certe operazioni attribuite ai dèmoni (22). Ma giudicato nel suo complesso, l'Apologetico è un modello di argomentazione forense, quale risonò di rado anche sul labbro dei più grandi oratori. La conclusione di Tertulliano che semenza sarebbe stato il sangue dai martiri versato (50,13), ebbe la consacrazione del tempo futuro.

Venendo a toccare della forma dell'opera tertullianea, avrebbe torto chi volesse giudicarne lo stile e la lingua con i criteri della prosa ciceroniana e quintilianea. Egli se ne discosta molto: non tanto, direi, per quanto concerne i costrutti sintattici, quanto per il significato assunto da molte parole, lontanissimo ormai dall'originario, vuoi per una evoluzione naturalmente subita, vuoi per una decisa volontà dello scrittore, che a quel significato le torce. Per questo rispetto, non solo Minucio, ma Cipriano e Agostino, pure africani, sono assai meno lontani di lui dalla buona lingua. Indubbiamente il suo scrivere risente, più che della scuola di retorica, da cui egli proveniva, e della regione, ov'era nato, della sua forte personalità. Per questo il suo periodo torna spesso difficile e oscuro: lo riconosce pure Lattanzio (Inst. 5,1,23: in eloquendo parum facilis... et multum obscurus). Ma chi lo scrivere di Tertulliano esamini con criterio meno rigoroso e lo scrittore collochi nella sua giusta luce, non potrà non perdonare quell'oscurità, che consegue anche spesso dal suo particolare temperamento, ardente e aggressivo, sprezzatore del puro formalismo inteso ad accarezzare l'orecchio; e ammirare quel suo nerbo e impeto e vigore, quella sua fede ardente e sincera, quella sua anima eroica, che si trasfonde nell'espressione senza sottintesi o residui.

Dei giudizi di coloro che vissero non molto dopo Tertulliano, merita di esser ricordato quello di EUSEBIO, che lo disse " versatissimo nelle leggi romane e famoso nel resto e dei più illustri a Roma " (Hist. ecclestast. 2,24). " In ogni campo delle lettere competente ", lo dice LATTANZIO (Inst. 5,1,23); " d'ingegno acuto e impetuoso " San GIROLAMO, che narra come San Cipriano non soleva passare giorno senza leggere sue opere; e per farsi dare dal segretario il suo autore, gli diceva: " Dammi il maestro " (De vir. ill. 53). " Eloquentissimo " lo chiama Sant'AGOSTINO (De haeres. 86).

13. - Fatto insolito e, forse, unico nella tradizione delle opere letterarie, per l'Apologetico abbiamo due tradizioni manoscritte distinte, nel senso che in esse si rilevano divergenze e differenze sostanziali, da non potersi spiegare che con l'ipotesi di una edizione nuova, ritoccata dallo stesso scrittore. L'una tradizione è rappresentata da una trentina di manoscritti; l'altra da un manoscritto unico, quello che fu per molti anni conservato nel monastero benedettino di Fulda fino al secolo 12esimo. Di esso, che conteneva l'Apologetico e il Contra Judaeos, si è conservata la collazione riguardante l'Apologetico fatta nel 1584 dal Modius (Francois de Maulde, 1556-1597). La questione riguardante il modo di formazione di queste due tradizioni manoscritte, è tuttora dibattuta e non risolta.

L'opinione dei più è che Tertulliano abbia curato una sola edizione del suo scritto. La grande ammirazione suscitata e la vasta lettura potrebbe, fino a un certo punto, spiegare come l'opera abbia potuto subire, per parte di lettori più o meno competenti, rimaneggiamenti e modificazioni. Per le due tradizioni distinte si pronunzia il WALTZING, per le due tradizioni, risalenti, però, a Tertulliano stesso, il THÖRNELL, il PASQUALI, l'HOPPE, con considerazioni che appaiono gravi. La forma conservata dal codice Fuldense si presenta, di solito, come la più corretta, e di esso mi sono valso qua e là anch'io. Certo è che un testo che pienamente sodisfi ancora non abbiamo.

14. - Il testo della presente edizione non differisce molto da quello della Vulgata, da me generalmente seguito: ho, però, talora variata l'interpunzione, introdotto qualche emendamento, e accolto lezioni del codice Fuldense, che inclinerei io pure a credere risalga a una ulteriore recensione tertullianea. La traduzione ho cercato rendesse, non solo il pensiero, si anche il nerbo dell'oratore: e il commento, sopra tutto nella parte informativa e illustrativa, ho voluto fosse il più abbondante possibile (le citazioni debbo in gran parte all'OEHLER, Tertulliani quae supersunt omnia, tomus 1, Lipsiae 1853, p. 3 sg., al RAUSCHEN, Tertulliani Apologetici Recensio nova, Bonnae 1912, al WALTZING, L'Apologétique de Tertullien, traduction littérale suivie d'un commentaire historique eccetera, Louvain 1911; Tertullien, Apologétique, Commentaire analytique, grammatical et historique, Liège-Paris 1919, al COLOMBO, L'Apologetico, Società Editrice Internazionale, Torino 1915, all'HOPPE, Q. Septimi Florentis Tertulliani Apologeticum (CSL), Vindobonae 1939, i passi citati riscontrando e riportando per intero). Habent sua fata libelli. Se penso al momento, in cui questa mia lunga fatica esce alla vita, oso credere che il suo destino sarà quale m'illudo di presentirlo.

ONORATO TESCARI.
Roma, 3-6-1951.


L'APOLOGETICO

CAPO 1 -- Si mette in rilievo l'illogico e ingiusto procedere dei giudici, che condannano quello che non conoscono e non vogliono conoscere.

[1] Se a voi, dell'Impero romano magistrati, che in luogo pubblico ed eminente, direi quasi proprio al sommo della città presiedete ai giudizi, palesemente investigare e dinanzi a tutti esaminare non è permesso che cosa chiaramente nella causa dei Cristiani si contenga: se per questa unica specie di processi l'autorità vostra di inquisire in pubblico, come esige una giustizia accurata, o teme o arrossisce: se, in una parola, com'è recentemente in processi di casa nostra accaduto, l'ostilità contro questa setta, soverchiamente accanitasi, la bocca chiude alla difesa, sia lecito alla verità arrivare alle orecchie vostre almeno per l'occulta via di uno scritto silenzioso.

[2] Essa in favore della propria causa punto non prega, perché della propria condizione nemmeno si meraviglia. Sa essa che straniera vive su la terra, che fra estranei facilmente trova dei nemici: che, del resto, la sua famiglia, la sua sede, la sua speranza, il suo credito, la sua dignità l'ha nel cielo. Un'unica cosa frattanto brama: di non essere, senza essere conosciuta, condannata. [3] Che ci perdono qui le leggi, che nel proprio regno signoreggiano, se essa viene ascoltata? Forse che per questo maggiormente n'avrà del loro potere gloria, perché la verità, pur senza averla udita, condanneranno?. Ma qualora senza averla udita la condannino, oltre l'odio per l'ingiusto procedere, anche il sospetto si attireranno di nutrire qualche preconcetto, ascoltare non volendo quello che, ascoltato, condannare non avrebbero potuto.

[4] Orbene, questa prima accusa noi contro di voi formuliamo: l'ingiusto odio verso il nome cristiano. La quale ingiustizia dimostra e aggrava lo stesso titolo che sembra scusarla, vale a dire, l'ignoranza. Che infatti di più ingiusto, che dagli uomini venga odiato quello che essi ignorano, pur se la cosa l'odio meriti? Ché allora lo merita, quando viene conosciuto se lo merita.

[5] Ma se la conoscenza manca di codesto merito, onde dell'odio la legittimità si difende, la quale, non in base ai fatti, ma in base a un preconcetto deve trovare approvazione? Quando, dunque, gli uomini per questo odiano, perché ignorano quale sia la causa che odiano, perché non potrebbe questa esser tale che odiare non la dovrebbero? Perciò noi l'un fatto in base all'altro impugniamo: il fatto che essi ignorano, mentre odiano, e il fatto che ingiustamente odiano, mentre ignorano.

[6] Prova dell'ignoranza, che l'ingiustizia condanna, mentre vorrebbe scusarla, si è che tutti coloro, che per l'addietro odiavano, perché ignoravano, appena di ignorare cessano, anche cessano di odiare. E da costoro provengono dei Cristiani veramente con cognizione di causa, e quello che erano stati a odiare prendono, e quello che odiavano a professare; e sono tanti, quanti anche siamo accusati.

[7] Gridano che la città ne è assediata; che Cristiani si trovano nei campi, nei castelli, nelle isole. Che persone di ogni sesso, età, condizione, anche di famiglia distinta passano a questo nome, come di un danno, si attristano.

[8] Nè tuttavia proprio per questo fatto a sospettare la presenza di un qualche bene nascosto si spingono. Sospettare più dirittamente non lice; sperimentare più da presso non piace. Solo su codesto punto l'umana curiosità torpida si mostra. Amano ignorare, mentre altri di avere conosciuto gode. Quanto maggiormente costoro avrebbe Anacarsi accusati, che, senza sapere, giudicano di chi sa!

[9] Non sapere preferiscono, perché ormai odiano. A codesta maniera anticipano il giudizio che quello che non sanno è tale che, se lo sapessero, odiarlo non potrebbero: dal momento che, se nessun giusto motivo di odio si scoprisse, il meglio certo sarebbe cessare di odiare ingiustamente; se, invece, che quell'odio è meritato constasse, non solo nulla all'odio non si detrarrebbe, ma, anzi, maggior ragione si acquisterebbe a perseverarvi, anche autorizzati dalla sua giustizia.

[10] 'Ma - dice - non per questo una cosa si giudica anticipatamente un bene, per il fatto che molti a sè converte: quanti, infatti, non si pervertono al male, quanti transfughi alla rovescia!' - Chi lo nega? Sennonché, ciò che è veramente male, nemmeno coloro, che sono da esso trascinati, osano sostenere che è bene. Ogni male la natura o di paura cosparge o di rossore. [11] In somma i malfattori di nascondersi bramano, di mostrarsi evitano, colti tremano, accusati negano, nemmeno posti alla tortura facilmente o sempre confessano; certo condannati si attristano, gli assalti enumerano del tristo carattere contro se stessi, o al fato o agli astri lo imputano. Che il fatto appartenga a loro non vogliono, perché lo riconoscono male. [12] Fa invece il Cristiano qualche cosa di simile? Nessun Cristiano si vergogna, nessuno si pente, se non proprio di non essere stato tale prima; se è denunciato, se ne gloria; se accusato, non si difende; interrogato, o anche spontaneamente, confessa; condannato ringrazia.

[13] Che male è codesto, che i caratteri naturali del male non presenta, paura, vergogna, irresolutezza, pentimento, deplorazione? Che male è codesto, del quale accusato, uno gode, l'esserne accusato risponde a un desiderio, l'esserne condannato felicità? Non puoi chiamare follia, quello che vieni convinto di ignorare.

CAPO 2 -- Si critica più particolareggiatamente il procedimento dei giudici nei processi contro i Cristiani: ai quali non è concessa facoltà di difendersi, è usato un trattamento che non si applica a nessun criminale, contrariamente a quanto la loro qualità di criminali imporrebbe.

[1] In verità, se è certo che noi siamo quanto mai colpevoli, perché proprio da voi trattati veniamo diversamente dai nostri pari, vale a dire, gli altri colpevoli, mentre, della stessa colpevolezza trattandosi, uno stesso trattamento intervenire dovrebbe?

[2] Checché sia quello che di noi si dice, quando si dice degli altri, costoro e si servono della propria bocca e di un avvocato mercenario per far valere la propria innocenza: è loro concessa facoltà di rispondere, di replicare, dal momento che condannare non è lecito affatto, senza che uno sia stato ascoltato e difeso.

[3] Invece ai Cristiani soli nulla si permette di dire che l'accusa confuti, la verità difenda, il giudice faccia non ingiusto; ma soltanto quello si aspetta che è necessario all'odio pubblico: la confessione del nome, non già l'inchiesta sul delitto;

[4] quando, se un colpevole processate, non vi contentate, per sentenziare, che egli il suo nome abbia confessato di omicida o sacrilego o incestuoso o nemico pubblico (per parlare delle imputazioni che fate a noi), se anche le circostanze non esaminate e la qualità del fatto, il numero, il luogo, il tempo, i testimoni, i complici.

[5] Nulla di ciò quando si tratta di noi, mentre ugualmente strapparci bisognerebbe quello che con falsità si blatera: di quanti infanticidi uno avesse già assaggiato, quanti incesti fra le tenebre compiuti, quali i cuochi, quali i cani presenti. Quale gloria per quel governatore, che a scovare qualcuno fosse riuscito, il quale avesse già mangiato carni di cento bambini!

[6] Invece noi troviamo che anche la ricerca di noi è stata proibita. E invero Plinio Secondo, quando era al governo della provincia, dopo aver condannato alcuni Cristiani, altri indotti ad apostatare, tuttavia turbato dallo stesso gran numero, l'imperatore d'allora, Traiano, consultò circa il modo di condursi in seguito, allegando (toltone l'ostinato rifiuto a sacrificare) di non aver altro scoperto riguardo ai loro riti, se non delle riunioni antelucane per cantare in onore di Cristo, come di un dio, e per rinsaldare la loro disciplina, che l'omicidio vietava, l'adulterio, la frode, la slealtà e gli altri delitti.

[7] Allora Traiano rispose che persone di codesta sorta ricercare non si dovevano; ma, se deferite, doveansi punire.

[8] O sentenza per necessità confusa! Dice che non si devono ricercare, come innocenti, e che siano puniti ordina, come colpevoli. Risparmia e infierisce, fa finta di non sapere e sa. Perché da te stessa nella censura ti avvolgi? Se condanni, perché anche non ricerchi? Se non ricerchi, perché anche non assolvi? Per la ricerca dei briganti si assegna per tutte le province un distaccamento militare; contro i rei di lesa maestà e i nemici pubblici ogni uomo è soldato: l'inquisizione fino ai complici e ai testimoni si estende.

[9] Solo il Cristiano ricercare non lice: lice deferirlo, quasi che la ricerca fosse per avere altro effetto dal deferimento. Pertanto condannate un deferito, che nessuno avrebbe voluto venisse ricercato; il quale, penso, non per questo meritò il castigo, perché è colpevole, ma perché fu scoperto, mentre essere ricercato non doveva.

[10] Sennonché nemmeno in codesto verso di noi agite secondo le forme dei processi contro i criminali: in codesto, dico, che con gli altri, se negano, la tortura adoperate per farli confessare, invece con i soli Cristiani per costringerli a negare; mentre, se si trattasse di un male, noi certo negheremmo, voi, invece, con la tortura a confessare ci spingereste. E invero non per questo riterreste di non dover inquisire con processi su i delitti, per il fatto, dico, di esser certi che essi sono ammessi con la confessione del nome: voi che oggi, pur sapendo che cosa sia un omicidio, nondimeno all'omicida confesso il modo estorcete del suo misfatto.

[11] Quello che è più strambo, mentre la realtà dei nostri delitti dalla confessione del nome presumete, con la tortura ci costringete a ritrarci dalla confessione, talché, negando il nome, noi si neghi contemporaneamente anche i delitti, la cui realtà voi dalla confessione del nome avevate presunto.

[12] Ma, penso, non volete che noi si perisca, noi che pur reputate pessimi. Difatti a un omicida voi solete dire: 'Nega'; e un sacrilego lo fate dilaniare, se persista a confessare! Se non è così che agite nei riguardi dei colpevoli, allora noi ci giudicate innocentissimi quando, come innocentissimi, che si persista non volete in quella confessione, che reputate di dovere per necessità, non per giustizia, condannare.

[13] Grida un uomo: 'Sono cristiano'. Dice quello che è: tu vuoi udire quello che non è. O governatori costituiti per estorcere la verità, solo da noi vi sforzate di udire la menzogna. 'Sono - dice - quello che tu domandi se sono. Perché mi torturi alla rovescia? Confesso e mi torturi: che faresti, se negassi?' - Quando negano gli altri, certo non facilmente credete loro: a noi, se neghiamo, subito credete.

[14] Siavi sospetto codesto pervertimento: che alle volte qualche forza occulta non vi si nasconda, che di voi contro le forme, contro la natura del giudicare si valga, contro anche le stesse leggi. Ché, se non m'inganno, le leggi che si scoprano i rei ordinano, non che si nascondano; che i rei confessi si condannino, non che vengano assolti prescrivono. Codesto le deliberazioni del senato, codesto i mandati dei principi stabiliscono. Codesto potere, di cui siete ministri, è un dominio civile, non un dominio tirannico.

[15] Sotto i tiranni, infatti, la tortura era usata anche come castigo: tra voi al servizio è messa del solo processo. Osservate nei riguardi di essa la vostra legge, che la vuole necessaria fino a che si arrivi alla confessione; se è prevenuta dalla confessione, si renderà inutile, bisogna pronunciare la sentenza. Alla pena dovuta il colpevole dev'essere sottoposto, non sottratto.

[16] In fine nessuno brama di assolverlo: non è lecito volerlo. Perciò nessuno viene nemmeno costretto a negare. L'uomo cristiano, reo di tutte le sceleratezze tu lo ritieni, nemico degli dei, degli imperatori, delle leggi, dei buoni costumi, della natura tutta: e lo costringi a negare, per assolvere uno, che non potrai assolvere se non avrà negato.

[17] Tu tradisci le leggi. Vuoi dunque che neghi di essere colpevole, per farlo innocente e, contro sua voglia, senz'altro non più colpevole del suo passato. Onde codesta stramberia, che voi nemmeno a codesto pensiate, che a chi spontaneamente confessa s'ha da credere più che a colui che nega per forza: o che alle volte, costretto a negare, abbia insinceramente negato e, assolto, lo stesso, dietro il tribunale vostro, della vostra inimiciza rida, novellamente cristiano?.

[18] Orbene, poiché in tutto voi diversamente dagli altri colpevoli ci trattate, a un unico intento adoperandovi, a escluderci da questo nome (ne veniamo in verità esclusi, se quello facciamo che fanno i non cristiani), potete comprendere che non un qualche delitto è in causa, ma un nome, cui una forma di ostile attività persegue, che a codesto anzi tutto si adopera, che gli uomini si rifiutino di sapere con certezza quello che con certezza di non sapere sanno.

[19] Perciò sul conto nostro cose credono, che non sono provate; e che s'indaghi non vogliono, affinché non venga provato non esistere quelle che preferiscono avere credute, affinché quel nome, a quella ostile attività nemico, in base a delitti presunti, non provati, su la sola sua confessione sia condannato. Perciò alla tortura sottoposti veniamo, se confessiamo; veniamo puniti, se persistiamo, assolti se neghiamo, perché la guerra è condotta contro un nome.

[20] In fine, perché, leggendo su la tavoletta, dichiarate quell'uomo 'cristiano'? perché non anche 'omicida', se omicida è il Cristiano? perché non anche 'incestuoso' o quella qualunque altra cosa che credete che noi si sia? Solo se si tratta di noi, vergogna vi prende o rincrescimento di sentenziare, i nomi facendo propri dei delitti? Se 'cristiano' non è il nome di nessun delitto, è ben sciocco che vi sia un delitto di solo nome.

CAPO 3 -- Illogicità e incongruenza di un odio professato contro la setta dei Cristiani unicamente a causa del loro nome.

[1] Che dire del fatto che molti, così a occhi chiusi a odiare questo nome si spingono, che, pur rendendo a uno buona testimonianza, l'insulto del nome vi mescolano? 'Un onest'uomo è Gaio Seio: soltanto... è cristiano'. - Del pari un altro: 'Mi meraviglio che Lucio Tizio, persona saggia, a un tratto sia divenuto cristiano'. - Nessuno considera se onesto Gaio e persona seria sia Lucio, perché cristiano, o se cristiano sia, perché persona seria e onesta.

[2] Lodano quello che sanno, vituperano quello che non sanno; e quello che sanno con ciò che non sanno attaccano, mentre più giusto sarebbe l'occulto a priori giudicare in base a quello che è manifesto, piuttosto che quello che è manifesto a priori condannare in base a quello che è occulto.

[3] Altri, coloro che per l'addietro, prima che portassero questo nome, avevano conosciuti quali vagabondi, vili, disonesti, di ciò stesso, che essi biasimano, li lodano: accecati dall'odio, si spingono a un tale elogio. 'Che donna, quanto galante, gioviale! Che giovine, quanto buontempone, donnaiolo! Si sono fatti cristiani!'. - Così la colpa di un nome viene imputata al loro ravvedimento.

[4] Alcuni, pur nei riguardi del loro tornaconto, vengono con questo odio a patti, contenti del danno, pur di non avere in casa quello che odiano. Un marito, ormai non più geloso, caccia di casa la moglie ormai pudica; un padre, costretto per l'addietro a tollerare, il figlio scaccia ormai sottomesso; un padrone, un tempo mite, il servo ormai fedele dai suoi occhi allontana: come uno per questo nome si corregge, offende. Il bene non vale tanto, quanto l'odio contro i Cristiani.

[5] Orbene, se l'odio è contro un nome volto, qual è il reato di un nome? Quale accusa si può fare a dei vocaboli, se non quella che o suona barbara la voce di qualche nome, o infausta, o offensiva, o sconveniente? Invece 'cristiano', stando al significato, deriva da 'unzione'. Ma anche quando si pronunzia da voi malamente crestiano (nemmeno la conoscenza esatta del nome c'è tra di voi), risulta da parola che 'soavità' o 'bontà' significa. Pertanto in uomini innocenti perfino il nome innocente si odia. 6. Sennonché è la setta, appunto, che nel nome si odia del suo fondatore. Che novità, se una dottrina nei suoi seguaci una denominazione induce derivata dal maestro? Non si denominano forse i filosofi dal loro fondatore, Platonici, Epicurei, Pitagorici? anche dai luoghi di loro riunioni e dimore, Stoici, Academici? e del pari i medici da Erasistrato, i grammatici da Aristarco, i cuochi anche da Apicio?. 7. Né tuttavia offende nessuno la professione di un nome, con la instituzione trasmesso da colui che l'ha istituita. Certo se uno prova che una setta è cattiva e, per tal modo, cattivo anche il fondatore, costui proverà che pure il nome è cattivo, degno di odio, in seguito alla colpevolezza della setta e del suo autore. Perciò, prima di odiare il nome, riconoscere bisogna dall'autore la setta, o dalla setta l'autore. 8. Ora, invece, l'indagine e il conoscimento dell'una e dell'altro trascurando, ci si attacca a un nome, s'impugna un nome; e una setta non conosciuta e un autore non conosciuto una parola soltanto, a priori, condanna, perché così sono nominati, non perché siano di reità convinti.

CAPO 4 -- Quando le leggi hanno il diritto di esigere l'obbedienza; e in qual modo devono essere applicate.

[1] Così, dopo avere quasi a mo' di prefazione detto codesto, per bollare l'ingiustizia dell'odio pubblico contro di noi, a trattare senz'altro mi fermerò la causa della nostra innocenza. Né soltanto quanto a noi si imputa confuterò, ma anche contro coloro lo ritorcerò che ce lo imputano, affinché da ciò sappiano inoltre gli uomini che fra i Cristiani non si trova quello che essi trovarsi tra di loro non ignorano, e insieme perché arrossiscano di accusare, non dico essi, pessimi, delle persone ottime, ma così senz'altro, com'essi vogliono, dei loro uguali.

[2] Ai singoli delitti risponderò, che si dice commettiamo occultamente, che essi, invece, scopriamo commettere palesemente, in cui scelerati ci si giudica, sciocchi, degni di condanna, risibili. [3] Ma poiché, quando la nostra verità ogni loro affermazione ha fronteggiato, alla fine a quella viene opposta l'autorità delle leggi, talché o si afferma che non c'è più luogo a considerazioni dopo le leggi, o, pur contro voglia, la necessità dell'obbedienza viene alla verità anteposta, mi scontrerò con voi prima sul fatto delle leggi, come con tutori delle leggi. [4] Anzi tutto, quando duramente stabilite dicendo: 'A voi non è lecito esistere', - e codesto senza alcuna più umana considerazione prescrivete, voi di violenza fate professione, di dominio tirannico ingiusto, se affermate che per questo non è lecito, perché voi così volete, non perché deve non essere lecito. [5] Che se per questo non volete che sia lecito, perché non deve essere lecito, senza dubbio codesto essere lecito non deve, perché si agisce male; e appunto con ciò stesso si presume che sia lecito l'agir bene. Se io avrò scoperto essere bene quello che la tua legge ha vietato, non è vero che in base a quella presunzione essa vietare non mi può ciò che a buon diritto mi vieterebbe, se fosse male? Se la tua legge ha sbagliato, essa, penso, da un uomo è stata concepita: non è caduta giù dal cielo. [6] Vi meravigliate che un uomo o abbia potuto sbagliare nel creare una legge, o ravvedersi nel condannarla? Non forse anche le leggi dello stesso Licurgo, per essere state dagli Spartani corrette, tanto dolore produssero nel loro autore, che egli si ritirò e fece giustizia di sè, lasciandosi morire d'inedia?.

[7] Non forse anche voi tutti i giorni, a mano a mano che l'esperienza le tenebre dell'antichità rischiara, tutta quella vecchia ed incolta selva di leggi con la scure di nuovi rescritti ed editti emanati dai principi, troncate e recidete?

[8] Non forse ieri Severo, il più conservatore dei principi, dopo tanta autorevole vecchiaia, annullò quelle futilissime leggi Papie, che a mettere al mondo figliuoli costringono prima che le leggi Giulie a contrarre matrimonio?.

[9] Ma anche per l'addietro era legge che i debitori condannati fossero dai creditori fatti a pezzi. Tuttavia per pubblico consenso la disposizione crudele fu in seguito cancellata. La pena capitale fu mutata in una nota d'infamia: col ricorso al sequestro dei beni si preferì far salire il sangue umano al viso, piuttosto che versarlo.

[10] Quante leggi ancora da ripulire vi rimangono, senza che voi lo sappiate! Le leggi non il numero degli anni né la dignità dei loro autori, ma la giustizia sola raccomanda: e perciò, quando vengono riconosciute ingiuste, meritamente vengono condannate, anche se condannino.

[11] Come le diciamo ingiuste? - Anzi, anche stolte, se puniscono un nome; se, invece, le azioni, perché in base al solo nome puniscono azioni che, quando si tratta degli altri, reprimono dopo averle provate in base ai fatti, non in base al nome? - Sono un incestuoso. - Perché non s'indaga? - Un infanticida. - Perché non me lo strappano con la tortura? - Compio un'azione contro gli dei, contro i Cesari. - Perché non sono ascoltato io che ho come scolparmi? [12] Nessuna legge vieta che si esamini ciò che proibisce di commettere, perché né il giudice punisce, se non ha conosciuto essere stato commesso quello che non è lecito, né il cittadino fedelmente alla legge ubbidisce, se la qualità delle azioni ignora, che la legge punisce.

[13] Nessuna legge a sé sola deve la consapevolezza della sua giustizia, ma a coloro, dai quali l'obbedienza attende. Invece sospetta è una legge, se non vuole essere controllata: malvagia, se, senza essere controllata, s'impone.

CAPO 5 -- Coloro che hanno perseguitato i Cristiani sono stati sempre degli empi e dei tristi, per vostra stessa confessione.

[1] Per dire una parola sull'origine di tali leggi, esisteva un vecchio decreto, che nessun dio fosse da un capitano consacrato, se l'approvazione del senato ottenuto questo dio non avesse. Lo sa Marco Emilio del suo dio Alburno. Anche questo fa alla nostra causa, che tra di voi l'accoglimento di una divinità dall'arbitrio degli uomini viene fatto dipendere. Se un dio dell'uomo il gradimento non avrà incontrato, non sarà dio: sarà ormai l'uomo, che dovrà mostrarsi propizio al dio.

[2] Dunque Tiberio, al tempo del quale il Cristianesimo entrò nel mondo, i fatti annunziatigli dalla Siria Palestina, che colà la verità avevano rivelato della Divinità stessa, sottomise al parere del senato, votando egli per primo favorevolmente. Il senato, poiché quei fatti non aveva esso approvati, li rigettò. Cesare restò del suo parere, pericolo minacciando agli accusatori dei Cristiani.

[3] Consultate le vostre memorie: vi troverete che Nerone per la prima volta con la spada imperiale contro questa setta infierì, che proprio allora sorgeva in Roma. Di un tale iniziatore della nostra condanna anche ci gloriamo. Chi infatti costui conosce, può comprendere che non poté non essere un qualche gran bene quello che fu da Nerone condannato.

[4] Aveva tentato di farlo anche Domiziano, una porzione di Nerone quanto a crudeltà: ma per la porzione in cui era uomo, facilmente l'inizio represse, restituendo in patria per di più coloro che aveva relegati. Tali sempre furono i nostri persecutori, ingiusti, empi, turpi, cui voi anche siete soliti condannare, i cui condannati siete soliti riabilitare.

[5] Ma di tanti principi da quel tempo ad oggi, intenditori di cose umane e divine, indicatene uno che abbia mosso guerra ai Cristiani.

[6] Noi, al contrario, indichiamo un protettore, se la lettera si ricerca di Marco Aurelio, imperatore particolarmente saggio, nella quale attesta come quella famosa sete di Germania fu dissipata in seguito a una pioggia impetrata dalle preghiere di soldati per avventura cristiani. Se da tali uomini con un atto pubblico il provvedimento di un castigo non rimosse, in altra forma tuttavia publicamente lo annullò, un castigo per di più aggiungendo per gli accusatori, anche più severo.

[7] Che leggi sono dunque codeste, che contro di noi applicano soltanto empi, ingiusti, turpi, truci, stolti, pazzi, leggi che Traiano in parte frustrò, vietando di ricercare i Cristiani, leggi che nessun Vespasiano, pur debellatore dei Giudei, nessun Adriano, pur indagatore di tutte le curiosità, nessun Pio, nessun Vero applicò? In verità dei pessimi soggetti dagli ottimi tutti, come da loro avversari, avrebbero dovuto essere giudicati degni di sterminio, piuttosto che dai loro compagni.

CAPO 6 -- Non ai Cristiani va rivolta l'accusa di violare le prescrizioni del costume romano, ma ai Romani stessi, che sono tanto degenerati dall'austerità e dalla disciplina degli antichi, sia per quanto concerne la virtù, sia per quanto riguarda la religione.

[1] Ora io vorrei che gli scrupolosissimi protettori e vindici delle leggi e delle instituzioni patrie mi rispondessero nei riguardi della loro fede, onore, ossequio prestato alle prescrizioni dei maggiori: se da nessuna di esse si sono allontanati, se in nessuna hanno deviato, se le prescrizioni tutte più adatte e necessarie alla disciplina lasciate non hanno cadere in dimenticanza.

[2] Dove sono andate a finire quelle leggi intese a frenare il lusso e l'ambizione, che prescrivevano fossero permessi per un pranzo cento assi e non più, e non fosse imbandita più di una gallina e, per giunta, non ingrassata: che dal senato un patrizio allontanavano, per avere posseduto dieci libbre d'argento, indizio grave di ambizione, che i teatri sorgenti per corrompere i costumi immediatamente abbattevano, che i distintivi di dignità e natali onorevoli non lasciavano capricciosamente e impunemente usurpare?

[3] Vedo, infatti, ormai pranzi, che si dovrebbero chiamare centenari dai cento mila sesterzi che ciascuno costa, e miniere d'argento in piatti impiegate - poco male se in piatti di senatori, e non di liberti e perfino di gente che spezzano ancora gli staffili. Vedo anche che non basta più un teatro per città, né scoperto. Infatti a impedire che anche l'impudica voluttà d'inverno patisse il freddo ... primi gli Spartani inventarono per gli spettacoli il mantello. Vedo che tra le matrone e le prostitute nessuna differenza, circa il vestire, è rimasta più. [4] Nei riguardi delle donne, in verità, anche sono cadute quelle istituzioni dei maggiori, che la modestia e la sobrietà tutelavano, quando nessuna conosceva l'oro tranne che in un solo dito, quello che il fidanzato con il pronubo anello avesse impegnato; quando le donne dal vino a tal punto si astenevano, che una matrona per avere disuggellato la cassetta dov'eran le chiavi della cantina, fu fatta dai suoi morire d'inedia; e sotto Romolo, per vero, una tale che aveva toccato vino, fu dal marito Metennio impunemente trucidata. [5] Pertanto anche era un obligo per le donne baci offrire ai congiunti, affinché venissero dall'alito giudicate.

[6] Dov'è quella felicità dei matrimoni, prosperata, appunto, in seguito ai buoni costumi, per cui durante circa seicento anni dalla fondazione di Roma nessuna casa un divorzio registrò? Ora, invece, nelle donne nessun membro a causa dell'oro è liscio, a causa del vino nessun bacio è senza preoccupazione, il divorzio, in verità, è ormai anche il loro voto, quasi un frutto del matrimonio.

[7] Anche nei riguardi dei vostri stessi dei, quei provvedimenti che saggiamente avevano i padri vostri decretato, voi medesimi? gli ossequentissimi, avete rescisso. Il padre Libero con i suoi misteri i consoli, per decreto del senato, non solo dall'urbe, ma da tutta l'Italia eliminarono. [8] Serapide e Iside e Arpocrate con il loro Cinocefalo i consoli Pisone e Gabinio, non certo cristiani, impedirono che recati fossero sul Campidoglio: vale a dire, dalla curia degli dei respinsero e, rovesciatine anche gli altari, li allontanarono, disordini di turpi e oziose superstizioni arrestando. Restituendoli al culto, voi a questi dei conferito avete la maestà più alta.

[9] Dove il religioso rispetto, dove la venerazione da voi dovuta ai maggiori? Nel vestire, nel modo di vivere, nelle suppellettili, nei sentimenti, nel linguaggio stesso in fine voi avete gli antenati vostri ripudiato. Sempre l'antichità lodate: e ogni giorno delle novità nella vostra vita introducete. Onde si dimostra che, mentre dai buoni costumi dei maggiori vi allontanate, voi quello ritenete e custodite che non avreste dovuto, mentre quello che avreste dovuto, non avete custodito.

[10] Quello che avete l'aria di custodire ancora fedelissimamente, tramandatovi dai padri, in cui principalmente avete preso di mira i Cristiani, come rei di averlo trasgredito, voglio dire lo zelo del culto divino, intorno al quale sopra tutto l'antichità errò (sebbene a Serapide, ormai romano, abbiate ricostruito gli altari, sebbene a Bacco, ormai italico, le vostre furie immoliate), dimostrerò a suo luogo che è del pari da voi trascurato e negletto e abolito contro l'autorità dei maggiori.

[11] Per ora risponderò a quell'accusa infamante di scelleratezze occulte, per aprirmi la via a quelle più palesi.

CAPO 7 -- L'accusa di delitti turpi e infamanti sparsa contro i Cristiani è falsa: prova n'è l'impossibilità in cui sempre gli accusatori si sono trovati di dimostrarne la fondatezza, e il modo come si procede con i Cristiani durante il processo.

[1] Ci si dice scelleratissimi a motivo di un rito d'infanticidio e del cibo di qui preso e dell'incesto compiuto dopo il banchetto, incesto che dei cani lenoni, si capisce, delle tenebre, agevolano, i lumi rovesciando, per stendere un velo di verecondia su l'empie libidini. Lo si dice, tuttavia, di noi, sempre: né voi quello che da tanto tempo di noi si dice, di metterlo in chiaro vi curate. Perciò o mettetelo in chiaro, se ci credete, o non credeteci, se non lo mettete in chiaro.

[2] Da codesta vostra trascuranza si eccepisce contro di voi che non esiste quello che neppur voi mettere in chiaro osate. Un ben diverso ufficio al carnefice imponete nei riguardi dei Cristiani: a far si che essi, non già quello che fanno, dicano, ma che quello che sono, neghino. [3] L'origine di questa dottrina, come già abbiamo esposto, risale al tempo di Tiberio. La verità ha avuto origine insieme con l'odio contro di essa: appena appare, è nemica. Tanti sono i suoi nemici, quanti gli estranei: e propriamente i Giudei per ostilità, i soldati per ricatto, quelli stessi di casa nostra, anche, per natura.

[4] Tutti i giorni siamo assediati, tutti i giorni traditi, spessissimo nelle nostre stesse riunioni e adunanze veniamo sorpresi. [5] Chi mai sopravvenne mentre un bimbo, trattato al modo che voi dite, vagiva? Chi le bocche cruente di questi Ciclopi e Sirene custodi, come trovate le aveva, per mostrarle al giudice? Chi pur nella propria sposa qualche immondo vestigio colse? Chi tali misfatti, avendoli scoperti, tenne nascosti o vendette, trascinando davanti ai tribunali gli autori stessi? Se sempre nascosti rimaniamo, quando quello che commettiamo è stato rivelato?

[6] Anzi, da chi poté essere rivelato? Dagli stessi rei non certo, essendo di regola in tutti i misteri dovuto pure un fedele silenzio. Su i misteri Samotraci ed Eleusini si conserva il silenzio: quanto più si conserverebbe su tali misteri, che, rivelati, provocheranno, nel frattempo, anche la punizione degli uomini, mentre è riservata loro quella di Dio? [7] Se, dunque, non essi, i rei, si tradiscono da se stessi, ne segue che lo fanno gli estranei. Ma onde agli estranei la conoscenza, dal momento che sempre le iniziazioni, anche pie, i profani allontanano e dai testimoni si guardano? A meno che gli empi usino meno riguardo. [8] La natura della diceria è nota a tutti. è roba vostra: La diceria un malanno, di cui non v'è altro più veloce. Perché un malanno la diceria? perché veloce, perché rivelatrice, oppure perché è il più spesso menzognera? Essa che, nemmeno quando reca qualche cosa di vero, è senza difetto di mendacio, togliendo, aggiungendo, in parte mutando la verità.

[9] E che dire del fatto che tale è la sua condizione, che, solo a patto di mentire, persevera, e tanto a lungo vive, quanto a lungo non prova? E invero, quando ha provato, cessa di esistere; e adempiendo, in certo modo, l'ufficio di messaggera, consegna una realtà; e da allora è una realtà che si possiede, una realtà che si riferisce. [10] Nessuno dice, per esempio, 'Dicono che a Roma sia avvenuto codesto'; oppure 'Corre la diceria che quello abbia avuto in sorte la provincia'; si, invece, 'Colui ha avuto in sorte la provincia'; 'Codesto è avvenuto a Roma'.

[11] La diceria, denominazione dell'incertezza, non ha luogo dove è la certezza. Forse che alla diceria potrebbe credere se non uno sbadato? E invero il saggio all'incerto non presta fede. Tutti constatare possono che, per quanto grande l'ampiezza sia in cui è diffusa, per quanto grande l'assicurazione, con cui è stata costruita, essa diceria necessariamente una volta da un unico autore è nata.

[12] Di qui per i canali delle lingue e delle orecchie serpeggia, e così il piccolo vizioso seme le altre voci oscura al punto, che nessuno riflette se, per avventura, quella prima bocca la menzogna non abbia seminato: il che spesso avviene o per la natura propria dell'ostilità o per l'arbitrarietà propria del sospetto o per il gusto non occasionale, ma ingenito in qualcuno, di mentire. [13] Fortuna che il tempo tutto mette in luce (ne fanno testimonianza anche vostri proverbi e sentenze) per disposizione della natura, che ha ordinato in modo che nulla a lungo nascosto rimane, nemmeno quello che la diceria non ha propalato. [14] è pertanto naturale che la diceria sia da tanto tempo consapevole essa sola dei delitti dei Cristiani. Questa, quale delatrice, contro di noi producete: la quale ciò che una volta ha blaterato e per tanto spazio di tempo nell'opinione rafforzato, non è fino ad oggi riuscita a provare.

CAPO 8 -- Il delitto, di cui si accusano i Cristiani, è di tal natura, che non c'è uomo che si sentirebbe capace di commetterlo. Né vale obiettare l'ignoranza o la paura in chi lo commette.

[1] Per invocare la testimonianza della natura stessa contro coloro, che presumono che tali cose si debbano credere, ebbene, si, la ricompensa vi prospetto di tali delitti: essi ripromettono la vita eterna. Credetelo per ora. Intorno a codesto, infatti, domando: se tu, che anche vi hai creduto, pensi che valga la pena di pervenirvi con una tale consapevolezza. [2] Vieni, il ferro affonda nel bimbo nemico di nessuno, colpevole di nulla, figlio di tutti; o, se codesto ufficio appartiene ad altri, tu soltanto sta da presso a un uomo che muore prima di essere vissuto; attendi che l'anima novella si fugga, il sangue giovinetto raccogli, di esso il tuo pane imbevi, mangiane con gusto.

[3] Frattanto seduto a tavola conta i posti, dove si trova tua madre, dove tua sorella: contali diligentemente, affinché, quando calate saranno le tenebre canine, non sbagli. Ché commetterai un sacrilegio, se non commetterai un incesto.

[4] Iniziato a tali riti e contrassegnato, tu vivi in eterno. Desidero che tu risponda, se vale tanto una vita eterna; e, se non vale, se nemmeno, per questo, si debba credervi. Anche se tu vi creda, dico che non vorresti saperne; anche se tu voglia saperne, dico che non ne saresti capace. Perché, dunque, ne sarebbero capaci altri, se non ne siete capaci voi? Perché non ne sareste capaci voi, se capaci ne sono altri?

[5] Si capisce, noi siamo di altra natura, siamo dei Cinopeni o degli Sciapodi: altri filari di denti, altri nervi per un piacere incestuoso. Tu che codesto di un uomo credi, anche sei capace di farlo: uomo sei tu pure, come il Cristiano. Se non sei capace di farlo tu, non devi crederlo di altri. Uomo è infatti anche il Cristiano, come te.

[6] 'Ma lo si suggerisce e impone a gente che non sa'. - Si capisce, nulla sapeva codesta gente, che tali atti sul conto dei Cristiani si affermavano: era loro certamente necessario osservare e con ogni vigilanza investigare per venirne a conoscenza.

[7] Eppure a chi essere iniziato vuole, è costume, penso, prima al padre dei misteri presentarsi, quello che deve esser preparato descrivergli. Quello dirà: 'Ti è necessario un bimbo, ancor tenero, che il morire ignori, che sotto il tuo coltello sorrida; parimenti del pane, sul quale il flusso del sangue raccolga; inoltre candelabri e lucerne e qualche cane e bocconi, che li facciano tendersi fino a spegnere il lume. Sopra tutto venire dovrai con tua madre e con tua sorella'.

[8] E se queste non vogliono? o non hanno essi nessuna di costoro? Quanti Cristiani, in somma, che vivono soli! Non ci sarà, penso, nessun Cristiano legittimo, se non sarà fratello o figlio. 'E se tutto ciò viene preparato, senza che gli iniziandi lo sappiano?' - Ma almeno dopo vengono a conoscerlo: e sopportano e lasciano andare?

[9] 'Temono di essere puniti, se lo rivelano'. - Essi, che meriteranno di essere da voi, difesi? Essi che preferirebbero morire perfino spontaneamente, piuttosto che vivere sotto una tale consapevolezza? Orsù; ammettiamo che abbiano paura di essere puniti: perché anche vi perseverano? Segue, infatti, che tu non voglia ulteriormente essere quello che, se l'avessi conosciuto, prima, non saresti stato.

CAPO 9 -- Non i Cristiani meritano di essere accusati d'infanticidio e di pasti nefandi, ma essi, i Pagani. Altrettanto dicasi dell'incesto.

[1] Per riuscire a maggiormente confutare l'accusa di questi delitti, dimostrerò che da voi, parte apertamente, parte occultamente, essi vengono compiuti: per cui forse anche sul conto nostro l'avete creduta.

[2] Bambini in Africa venivano sacrificati a Saturno publicamente fino al proconsolato di Tiberio, che i medesimi sacerdoti, appesi agli alberi stessi del loro tempio, con l'ombra loro quei delitti ricoprenti, come su croci votive espose: testimoni soldati del padre mio, che proprio quell'ufficio a quel proconsole adempirono.

[3] Ma tuttora in questo rito esecrando occultamente si persevera. Non sono solo i Cristiani a non tener nessun conto di voi: non v'è delitto che venga sradicato per sempre, né dio alcuno che i suoi costumi cambi. [4] Non avendo Saturno i propri figli risparmiato, a non risparmiare gli altrui naturalmente perseverava, che, in verità, i loro genitori stessi gli offrivano e volentieri promettevano in voto, e i bimbi accarezzavano, perché senza pianto sacrificare si lasciassero. E tuttavia il parricidio dall'omicidio molto differisce. [5] Adulti presso i Galli a Mercurio vengono sacrificati. Lascio i drammi Taurici al loro teatro. Ecco, in quella religiosissima città dei pii Eneadi v'è un Giove, che, durante gli spettacoli in suo onore celebrati, di sangue umano aspergono. 'Ma col sangue d'un bestiario', voi dite. - Si capisce, codesto è meno grave, penso, che col sangue di un semplice uomo. O non è, invece, più turpe, per il fatto che un dio spruzzate col sangue di un uomo malvagio? Almeno tuttavia ammetterete che quel sangue in seguito a un omicidio si versa. O Giove cristiano e figlio di suo padre soltanto in quanto a crudeltà! [6] Ma poiché per l'infanticidio non c'è differenza se per un rito sacro venga compiuto o per capriccio, sebbene fra il parricidio e l'omicidio ci sia differenza, mi rivolgerò al popolo. Fra costoro che ci stanno d'intorno e avidamente dei Cristiani al sangue anelano, anche tra voi stessi governatori giustissimi e severissimi con noi, di quanti volete che io bussi alla coscienza, i quali i figli loro nati uccidono?

[7] Che se c'è una differenza anche intorno al modo dell'uccisione, certo agite più crudelmente voi nell'acqua soffocandoli o al freddo esponendoli, alla fame, ai cani: non c'è adulto che morire di ferro non preferirebbe.

[8] Quanto a noi, essendoci l'omicidio una volta per tutte interdetto, anche la creatura concepita nel grembo, mentre tuttora il sangue le deriva a formare l'uomo, dissolvere non lice. è un omicidio affrettato impedire di nascere, né importa se una vita nata uno strappi, o mentre sta nascendo la dissipi. E' uomo anche chi è per diventarlo; anche ogni frutto già nel seme esiste. [9] Quanto al pasto di sangue e alle consimili portate da tragedia, leggete se in qualche luogo non si trovi riferito - si legge, credo, in Erodoto - come certe nazioni il sangue versato dalle braccia dell'una e dell'altra parte e gustato - facevano servire alla conclusione di un patto. Non so qual bevanda del genere fu gustata anche per ordine di Catilina. Dicono anche che presso alcuni Gentili di fra gli Sciti, ogni defunto viene dai suoi mangiato. [10] Ma mi allontano di troppo. Qui oggi il sangue della coscia tagliata raccolto nella mano e dato a bere, i seguaci di Bellona inizia. Del pari coloro, che durante lo spettacolo, nell'arena, il sangue caldo dei criminali sgozzati, scorrente dalla gola raccogliendo, con avida sete bevono per guarire dal morbo comiziale, dove si trovano?

[11] E del pari coloro che di vivande ferme si cibano raccolte dall'arena, che domandano un pezzo di cinghiale, di cervo? Quel cignale nella lotta il sangue lambì di colui che esso dilaniò; quel cervo nel sangue giacque di un gladiatore. Perfino le viscere degli orsi si appetiscono, piene ancora di umane viscere non digerite. Erutta, perciò, uomo, carne pasciutasi di uomo. [12] Voi che simili vivande mangiate, quanto siete distanti dai banchetti dei Cristiani? E meno fanno anche coloro, che, da libidine selvaggia sospinti, bramosi anelano a membra umane, per il fatto che divorano dei viventi?. Meno con sangue umano vengono all'ignominia consacrati, perché lambiscono quello che diverrà sangue? Non mangiano bimbi, senza dubbio, ma piuttosto degli adulti.

[13] Arrossisca l'error vostro di fronte ai Cristiani, che nemmeno il sangue degli animali abbiamo a tavola tra le vivande in uso, che per questo anche dagli animali soffocati e morti di malattia ci asteniamo, per non venire in qualche modo contaminati dal sangue pur nascosto entro le viscere.

[14] In fine fra le tentazioni adoperate con i Cristiani, voi anche delle salsicce accostate loro gonfie di sangue, sicurissimi - è chiaro - essere tra loro illecito quello con cui farli deviare volete. Or dunque che è mai codesto vostro credere che bramose di umano sangue siano persone, che siete convinti aborrire il sangue di animali? A meno che essere quello più gustoso per avventura sperimentato non abbiate.

[15] Il sangue anch'esso adoperare ugualmente si sarebbe dovuto, quale mezzo di indagare i Cristiani, come il braciere e l'incensiere: in tal guisa, infatti, appetendo il sangue umano si sarebbero rivelati, allo stesso modo che rifiutandosi al sacrificio; altrimenti si sarebbe dovuto negare che fossero cristiani, se non ne avessero gustato, al modo stesso che se avessero sacrificato. E certo non sarebbe mancato a voi sangue umano nell'ascoltare e condannare i detenuti. [16] Inoltre chi è più incestuoso di coloro, cui Giove stesso istruì?. Ctesia riferisce che i Persiani con le loro madri si uniscono. Ma anche i Macedoni sono sospetti, perché, avendo per la prima volta assistito alla tragedia Edipo, ridendosi del dolore dell'incestuoso 'Si gettava - dicevano - su sua madre!'. [17] Riflettete fin d'ora quanto sia permesso alle confusioni per compiere unioni incestuose, là dove le occasioni fornisce la promiscuità della lussuria. Prima di tutto voi esponete i figliuoli, perché siano da qualche pietà estranea, che passi loro vicino, raccolti; o li emancipate, perché adottati siano da genitori in condizioni migliori. è inevitabile che il ricordo della famiglia divenuta estranea, un momento o l'altro svanisca. E appena la possibilità di confusione avrà preso piede, da allora subito se ne avvantaggerà la propaggine dell'incesto, e la famiglia si estenderà delittuosamente.

[18] Allora, quindi, in qualunque luogo, in patria, fuori, al di là dei mari vi è compagna la libidine, le cui deviazioni, dovunque compiute, possono facilmente in qualche luogo procrearvi, senza che lo sappiate, figliuoli anche da una qualche porzione della vostra semenza; talché la discendenza dispersa attraverso le relazioni umane, con i suoi consanguinei venga a incontrarsi, senza che l'ignaro del sangue incestuoso li riconosca. [19] Noi da codesta eventualità difende una diligentissima e costantissima castità; e quanto dagli stupri e da ogni eccesso dopo il matrimonio, altrettanto anche dall'eventualità dell'incesto siamo sicuri. Alcuni, molto più sicuri, ogni pericolo di questo errore allontanano con una continenza verginale, vecchi fanciulli.

[20] Se codesto stato di cose consideraste esistere in voi, vedreste che altrettanto non esiste fra i Cristiani: gli stessi occhi vi avrebbero fatto palese l'una e l'altra realtà. Ma di cecità ve n'è due specie, che vanno facilmente insieme: quelli che non vedono quello che è, di vedere credono quello che non è. Così proverò essere in tutto. Ora parliamo dei misfatti palesi.

CAPO 10 -- Confutazione delle accuse concernenti i delitti manifesti d'irreligiosità, di empietà. Tertulliano dimostra che non sono dei quelli che dai Pagani sono ritenuti tali. Anche secondo la credenza loro, essi furono un tempo uomini.

[1] Voi dite: 'Non onorate gli dei e i sacrifici non offrite per i nostri imperatori'. - Ne segue che noi non sacrifichiamo per gli altri per il fatto che nemmeno sacrifichiamo per noi stessi, una volta per tutte non onorando gli dei. Perciò veniamo processati come rei di empietà e lesa maestà. Questo è il punto capitale della nostra causa, anzi tutta la causa: in verità degna di essere conosciuta, se non è la presunzione o l'ingiustizia che giudica, l'una disperando, l'altra rifiutandosi di mettere in chiaro la verità. [2] Noi di onorare gli dei vostri abbiamo smesso da quando abbiamo conosciuto quelli non essere dei. Codesto pertanto esigere dovete, che noi si provi non essere dei quelli, e perciò non degni di essere onorati, per il fatto che solo allora avrebbero dovuto essere onorati, se fossero stati dei. Allora anche dovrebbero i Cristiani essere puniti, se quelli che essi non onorano, perché non li ritengono dei, constasse che sono dei. [3] 'Ma per noi - voi dite - sono dei'. - Ci appelliamo da voi ricorrendo alla vostra coscienza: quella ci giudichi, quella ci condanni, se negare potrà che tutti codesti vostri dei sono stati degli uomini. [4] Se essa pure negherà, confutata verrà in base ai suoi documenti attinti all'antichità, dai quali essa la loro conoscenza derivò. Di ciò testimonianza rendono, fino al dì d'oggi, le città in cui quegli dei sono nati, le regioni nelle quali di qualche loro operazione vestigi lasciarono, in cui anche si dimostra che sono stati sepolti.

[5] Or dunque dovrei io passare in rassegna uno per uno tanti e svariati dei, nuovi e antichi, barbari e greci, romani e forestieri, captivi e adottivi, propri e comuni, maschi e femmine, rustici e urbani, nautici e militari?

[6] Un perditempo sarebbe enumerarne anche solo le denominazioni. Per riassumere in breve - e codesto non per farvelo conoscere, ma per richiamarvelo a mente, ché certo la figura fate degli smemorati: - prima di Saturno non c'è tra voi nessun dio; da lui l'inizio perfino di ogni più importante e più nota divinità. Perciò quello che risulterà nei riguardi dell'origine, anche si converrà alla discendenza.

[7] Dunque di Saturno, stando a quanto i monumenti letterari attestano, né il greco Diodoro o Tallo, 'né Cassio Severo o Cornelio Nepote, né alcun trattatista di antichità del genere publicarono altro, se non che fu un uomo; quanto alle prove dei fatti, in nessun luogo ne trovo di migliori che in Italia stessa, nella quale Saturno, dopo molte spedizioni e il soggiorno ospitale nell'Attica, si stabilì, accolto da Giano, o Giane, come vogliono i Salii. [8] Il monte, che egli aveva abitato, fu detto Saturnio, la città, che egli aveva fondato, è Saturnia, fino al dì d'oggi; in fine l'Italia tutta, dopo essere stata chiamata Enotria, aveva l'appellativo di Saturnia. Da lui primamente la tavoletta per scrivere e la moneta con impressa un'immagine: e perciò presiede all'erario.

[9] Pertanto, se Saturno fu un uomo, certo da un uomo la sua origine: e poiché da un uomo, certo non dal cielo e dalla terra. Ma un uomo, i cui genitori erano sconosciuti, fu facile chiamarlo figlio di coloro, di cui anche tutti possiamo sembrare figli. Chi, infatti, il cielo e la terra non chiamerebbe padre e madre a motivo di venerazione e di onore, o per conformarsi a una consuetudine umana, per cui esseri sconosciuti o comparsi tutto a un tratto si dicono essere arrivati dal cielo?

[10] Perciò a Saturno, che repentinamente da per tutto compariva, di essere chiamato figlio del cielo toccò: e invero anche figli della terra chiama il volgo coloro, la cui origine è incerta. Taccio il fatto che gli uomini erano così rozzi ancora, da commuoversi alla vista di qualunque uomo nuovo, come di un essere divino: mentre oggi, ormai civili, fra gli dei coloro consacrano, di cui pochi giorni prima con pubblico lutto hanno confessato la morte.

[11] Ma basta ormai di Saturno, se pur poco. Anche Giove essere stato dimostreremo tanto uomo, quanto nato da uomo; e in seguito tutto lo sciame della famiglia tanto mortale, quanto pari al suo capostipite.

CAPO 11 -- Illogicità e contraddizioni multiformi per chi ammetta che gli dei siano diventati tali da uomini.

[1] Ora poiché, come negare non osate che coloro furono uomini, così avete presa l'usanza di affermare che dei sono stati fatti dopo la morte, esaminiamo le cause che codesto hanno richiesto. [2] Anzi tutto è necessario che concediate che esiste un qualche dio più alto, e, per così dire, in possesso della divinità, che da uomini li ha fatti dei. E invero né essi assumersi una divinità, che non possedevano, avrebbero da sè potuto, né altri a chi non la possedeva, fornirla, se non uno che la possedesse in proprio. [3] Del resto, se nessuno ci fosse che gli dei creasse, inutilmente pretendete che quelli siano stati fatti dèi, togliendo di mezzo il fattore. Certo si è che, se farsi dei da se stessi avessero potuto, non sarebbero mai stati uomini, avendo la facoltà di crearsi, è chiaro, una condizione migliore. [4] Dunque, se v'è chi gli dei crea, ritorno all'esame delle cause, per cui da uomini si creano dei: e non ne trovo alcuna, tranne che quel dio grande il bisogno sentisse di ministri e di aiuti per i suoi uffici divini. Prima di tutto è sconveniente che egli il bisogno sentisse dell'opera di qualcuno, per di più di un morto, mentre più degno sarebbe stato ch'egli dall'inizio un dio facesse, egli che dell'opera di un morto doveva aver bisogno.

[5] Ma nemmeno vedo che ci fosse posto per quest'opera. E invero tutto il corpo di questo mondo o non nato e increato, stando a Pitagora, o nato e creato, stando a Platone, è certo che in codesta costruzione e disposizione e ordinamento con ogni razionale reggimento, una volta per sempre venne a trovarsi. Imperfetto non potè essere l'essere, che ogni cosa con perfezione creò.

[6] Nulla un Saturno attendeva o una gente saturnia. Sciocchi saranno gli uomini, se certi non si terranno che fin dai primordi cadde dal cielo la pioggia e le stelle raggiarono e la luce fiorì e i tuoni muggirono e che Giove stesso paura ebbe dei fulmini, che nella sua mano collocate; che, del pari, ogni frutto prima di Libero e Cerere e Minerva, anzi prima di quel qualche primo uomo, dalla terra in abbondanza uscì; poiché nulla di quanto per il sostentamento e la conservazione dell'uomo fu provveduto, dopo l'uomo essere introdotto potè.

[7] In fine si dice che gli dei abbiano scoperto, non instituito codeste cose necessarie alla vita. Or quello che scoperto viene, c'era; e quello che c'era, non si riterrà di colui che l'ha scoperto, ma di colui che l'ha instituito: infatti esisteva prima di essere scoperto. [8] Del resto, se Libero per questo fu fatto dio, perché la vite fece conoscere, male si agì con Lucullo, che, primo, le ciliege provenienti dal Ponto all'Italia rese comuni, per non averlo per questo divinizzato quale autore del nuovo frutto, in quanto rivelatore. [9] Perciò, se fin dall'inizio l'universo di tutto risultò provveduto e ordinato secondo determinati modi di adempiere ai propri uffici, vien meno per codesto rispetto il motivo di associare l'umanità alla divinità: poiché quegli uffici e quei poteri, che avete tra quegli dei distribuito, furono fin dall'inizio; a quel modo che sarebbero esistiti, anche se voi codesti dei creati non aveste.

[10] Ma voi vi volgete a un'altra causa, rispondendo che il conferimento della divinità fu una maniera di ricompensare delle benemerenze. Dopo di che voi concedete - credo bene - che quel dio creatore di dei si distingua per giustizia, così che non a caso né indegnamente né senza misura un tanto premio abbia dispensato.

[11] Voglio, pertanto, questi meriti passare in rassegna, se siano tali da averne elevati gli autori al cielo o non piuttosto nell'imo Tartaro sprofondati, che affermate, quando volete, essere il carcere delle pene dell'inferno. [12] Colà infatti essere cacciati sogliono tutti gli empi contro i genitori e gl'incestuosi con le sorelle e gli adùlteri con le spose e i rapitori di vergini e i corruttori di fanciulli e quelli che inferociscono e quelli che uccidono e quelli che rubano e quelli che ingannano e quanti sono simili a qualcuno dei vostri dei, nessuno dei quali puro da delitto o da vizio potrete provare, a meno che non neghiate che sia stato un uomo.

[13] Sennonché a mettervi in condizione di non poter negare che quelli siano stati uomini, si aggiungono ancora le seguenti osservazioni, che nemmeno di credere permettono che siano stati fatti dei in seguito. Se, infatti, voi presiedete alla punizione di persone tali, se quanti siete onesti il commercio rifiutate, il colloquio, la convivenza dei tristi e dei disonesti, se dei pari a costoro quel dio alla partecipazione associò della sua maestà, perché allora coloro condannate, dei quali i colleghi adorate?.

[14] è un marchio d'infamia per il cielo la vostra giustizia. Fate piuttosto dei tutti i più grandi criminali, per piacere agli dei vostri: è un onore per essi la divinizzazione dei loro uguali.

[15] Ma per lasciar da parte l'esame di questa indegnità, che siano stati probi ammettiamo, integri, buoni: quanti uomini di essi più eccellenti nell'Inferno non avete tuttavia lasciati: un Socrate per la sapienza, un Aristide per la giustizia, un Temistocle per la bravura militare, un Alessandro per la grandezza d'animo, un Policrate per la felicità, un Creso per la ricchezza, un Demostene per l'eloquenza.

[16] Chi fra quei vostri dei più autorevole e saggio di Catone, più giusto e valoroso di Scipione? Chi di Pompeo più grande, di Silla più felice, di Crasso più opulento, di Tullio più eloquente? Quanto più degnamente quel dio avrebbe aspettato costoro per associarseli come dei, preconoscendo certo i migliori! Ebbe fretta, penso, e il cielo chiuse una volta per sempre; ed ora certamente arrossisce che i migliori all'inferno mormorino.

CAPO 12 -- I vostri dei sono materia inerte, insensibile. Voi stessi mostrate di riconoscerlo nel modo con cui li fabricate.

[1] Ma la smetto su codesto punto, ché so bene che, quando dimostrato avrò che cosa i vostri dei sono, in base appunto a questa verità, dimostrerò che cosa non sono. Orbene, quanto ai vostri dei, vedo che sono soltanto nomi di certi antichi morti; e ascolto delle favole e da queste favole generato ne riconosco il culto.

[2] Quanto poi ai loro stessi simulacri, null'altro avverto se non che la materia, onde risultano, è a quella dei vasi e degli arnesi comuni sorella, o dai medesimi vasi e arnesi proviene, mutando in certo modo destino con la consacrazione, per opera dell'arte, che liberamente li trasfigura, per di più, nel modo più ingiurioso e sacrilego durante l'opera stessa: talché particolarmente per noi, che proprio a causa di essi dei veniamo puniti, può essere veramente un conforto nel castigo il fatto che essi pure, per venire all'esistenza, lo stesso nostro trattamento patiscono.

[3] Su croci e su pali voi i Cristiani ponete. Quale simulacro l'argilla non forma sovrapposta prima su una croce o un palo?. Sopra un patibolo il vostro dio viene in un primo tempo consacrato. [4] Con unghie voi i fianchi dei Cristiani dilaniate. Ma su gli dei vostri, per tutte le membra, con più forza accette lavorano e pialle e lime. Noi veniamo decapitati. Ma prima del piombo, della colla, dei perni, senza testa sono i vostri dei. Noi veniamo alle belve esposti. Certo a quelle che voi accanto a Libero e a Cibele e a Celeste collocate. [5] Siamo dalle fiamme arsi. Codesto essi pure in verità patiscono, mentre ancora si trovano nella massa primiera. Siamo alle miniere condannati. Da queste traggono i vostri dei origine. Veniamo in isole relegati. Anche qualche vostro dio in un'isola nascere o morire suole. Se per queste vie un qualche carattere divino risulta, allora coloro che vengono puniti, vengono divinizzati, e i suppliziati chiamarsi dei dovranno.

[6] Ma certo queste ingiurie e contumelie della loro fabricazione i vostri dei non sentono, come nemmeno gli atti di ossequio. 'O parole empie! o oltraggi sacrileghi!' rispondete voi. Ebbene, digrignate i denti, schiumate. Siete gli stessi che un Seneca con più numerose e amare parole a discorrere della vostra superstizione cogliete.

[7] Perciò se le statue e le immagini fredde noi non adoriamo, somigliantissime ai morti che esse rappresentano, cui sparvieri e topi e ragni mostrano di comprendere, non meriterebbe lode, piuttosto che castigo, il rifiuto di un errore riconosciuto? Possiamo infatti aver l'aria di offendere coloro che siamo certi non esistono affatto? Ciò che non esiste, nulla patisce da nessuno, per il fatto che non esiste.

CAPO 13 -- L'inesistenza dei vostri dei mostrate di riconoscere anche dal trattamento che loro usate, mettendone in vendita le immagini, equiparandoli nelle onoranze ai morti.

[1] 'Ma per noi sono dei' dici. - Come mai allora, per contro, voi vi fate cogliere empi e sacrileghi e irreligiosi verso gli dei vostri, voi che dei trascurate, dei quali l'esistenza presumete, voi che distruggete dei che temete, voi che anche dei deridete, di cui vi fate vindici?

[2] Esaminate, se dico il vero. Anzi tutto, quando chi l'uno chi l'altro dio onorate, indubbiamente fate torto a quello che non onorate. La preferenza di uno non può andare senza offesa di un altro, ché non ha luogo scelta di una delle parti senza rifiuto dell'altra.

[3] Senz'altro, dunque, voi disprezzate quelli che rifiutate, in quanto, rifiutandoli, non esitate a offenderli. E invero, come sopra abbiamo accennato, la condizione di ogni divinità dall'apprezzamento del senato dipendeva. Non era dio quello, che un uomo, consultato, non avesse voluto e, non volendo, avesse condannato.

[4] Gli dei domestici, che chiamate Lari, trattate in base all'autorità domestica, impegnandoli, vendendoli, mutando talora in una pentola un Saturno, talora in una ciotola una Minerva, secondo che ciascuno per il lungo culto è consumato o ammaccato, secondo che ciascun padrone di casa ha più venerabile riscontrato la necessità domestica. [5] Ugualmente in base all'autorità publica gli dei pubblici profanate, che considerate come tributari mettendoli nel protocollo dei pubblici appalti. Così al Campidoglio, così al mercato dei legumi si accede: sotto la medesima voce del banditore, sotto la stessa asta, sotto la stessa registrazione di un questore la divinità viene appaltata e aggiudicata. [6] Sennonché i terreni da un tributo gravati meno sono apprezzati, le persone, all'imposta del capo soggette, meno sono stimate, ché codeste sono note di servitù. Gli dei, invece, più pagano di tributo, più sono venerabili. Anzi, più sono venerabili, più pagano di tributo. La maestà diventa oggetto di lucro: per le bettole gira la religione mendicando. Esigete un compenso per l'accesso, per la dimora nel tempio. Conoscere gratis gli dei non lice: sono in vendita.

[7] Che altro assolutamente fate per onorare gli dei, che interamente non compiate anche per i vostri morti? Ugualmente templi, ugualmente altari. Lo stesso abbigliamento, le stesse insegne nelle statue: quale fu l'età, l'arte, l'attività del morto, tale è, una volta divenuto nume. In che differisce dal banchetto di Giove quello funerario, la libazione sacrificale da quella fatta per il morto, il becchino dall'aruspice?. E invero anche l'aruspice è al servizio dei morti.

[8] Ma opportunamente agli imperatori morti l'onore attribuite della divinità, ai quali l'attribuite pure da vivi. L'avranno a guadagno i vostri dei, anzi si dimostreranno lieti vedendo a sè parificati i loro padroni.

[9] Ma quando tra le Giunoni, le Cereri, le Diane adorate una Larentina, publica meretrice (preferirei almeno una Laide o una Frine): quando a un Simone mago una statua consacrate con un'inscrizione al dio Santo, quando non so quale giovinetto, proveniente dal collegio dei paggi di corte, partecipe fate del concilio degli dei, gli dei più antichi, se pur non siano più nobili, tuttavia vi conteranno come una ingiuria che sia stato concesso anche ad altri l'onore che ad essi soli l'antichità conferì.

CAPO 14 -- Il modo stesso come vengono i vostri dei rappresentati nelle tradizioni letterarie e trattati nei loro riti, ne dimostra la inesistenza.

[1] Anche i vostri riti voglio passare in rassegna. Non dico come vi comportate nel sacrificare, quando solo animali mezzi morti e putrefatti e rognosi immolate, quando di quelli ben grassi e sani non troncate che tutte le parti inutili, teste e unghie, che in casa vostra anche avreste destinati agli schiavi o ai cani; quando della decima, sacra ad Ercole, nemmeno la terza parte collocate sul suo altare. Loderò anzi, piuttosto, il vostro buon senso, che almeno una parte sottraete a quello che va perduto.

[2] Ma se mi volto alla letteratura vostra, da cui alla saggezza e al compimento dei doveri liberali venite educati, che specie non trovo di ridicolaggini! Dei che, a causa di Troiani e Achei, come paia di gladiatori, sono venuti a zuffa tra loro e a combattimento; Venere dalla saetta di un uomo ferita, perché il figlio suo Enea, in procinto di essere ucciso, al medesimo Diomede sottrarre voleva;

[3] Marte quasi morto durante tredici mesi di prigionia, Giove, liberato dal subire la stessa violenza per parte degli altri Celesti, per opera di un mostro: ed ora in atto di piangere la morte di Sarpedone, ora vergognosamente in fregola verso la sorella, mentre le amiche precedenti ricorda non così ardentemente amate.

[4] Continuando, quale poeta, di su l'esempio del suo capo, disonoratore non si rivela degli dei? Questo Apollo al servizio mette del re Admeto, per pascolarne le greggi; quello il lavoro da muratore di Nettuno al salario pone di Laomedonte.

[5] V'è anche un famoso fra i lirici (voglio dire Pindaro), che Esculapio canta giustiziato col fulmine per colpa d'ingordigia, perché la medicina disonestamente esercitava. Malvagio Giove, se a lui il fulmine appartiene; empio verso il nipote, invidioso verso il professionista.

[6] Codesto nè essere tramandato doveva, se fosse vero, nè, se falso, inventato tra persone religiosissime. Nemmeno i tragici o i comici di raccontare omettono nei prologhi le disgrazie o gli errori di qualche membro della famiglia di un dio.

[7] Mi taccio dei filosofi, e mi accontento di Socrate, che, in disprezzo degli dei, per la quercia giurava, per il capro, per il cane. 'Ma Socrate per questo fu condannato, perché distruggeva gli dei'. - Certo da un pezzo, voglio dire da sempre, la verità è odiata.

[8] Vero è che avendo gli Ateniesi, pentiti della sentenza, gli accusatori di Socrate più tardi punito e una statua di lui in bronzo in un tempio collocato, l'annullamento della condanna all'incolpabilità di Socrate rese testimonianza. Ma anche Diogene si prende non so qual gioco di Ercole, e il cinico romano, Varrone, trecento Giovi introduce o Giuppitri, se così s'ha da dire, senza testa.

CAPO 15 -- Lo scempio e la profanazione della divinità si compie anche nel modo più ripugnante su la scena e nell'interno degli stessi templi.

[1] Anche le altre licenziose fantasie servono al vostro divertimento attraverso al dileggio degli dei. Considerate le arguzie dei Lentuli e degli Ostilii e, vedete un po' se ridete dei mimi, oppure degli dei vostri in quegli scherzi e burle: un Anubi adultero, una Luna maschio, una Diana staffilata, la lettura del testamento di Giove morto, i tre Ercoli affamati burlati.

[2] Ma pur le parti degli attori esprimono tutta la sconcezza degli dei. Piange il figlio precipitato giù dal cielo il Sole, mentre voi vi divertite; Cibele per un pastore sospira, che non vuol saperne di lei, senza che voi ne arrossiate; e sopportate che le birbanterie si declamino di Giove, e che Giunone, Venere e Minerva giudicate siano da un pastore. [3] Col fatto stesso che una testa ignominiosa e famigerata la figura di un vostro dio rivesta, che un corpo impuro e a codesta arte educato con una vita effeminata una Minerva o un Ercole rappresenti, non si viola e contamina, tra i vostri applausi, la maestà divina?

[4] Più religiosi senza dubbio siete nell'anfiteatro, dove sopra il sangue umano, sopra i cadaveri di sozzi giustiziati ugualmente i vostri dei istrioneggiano, argomenti di storie somministrando a dei criminali, se pur spesso i criminali proprio la figura degli dei vostri non rivestono.

[5] Ho veduto io stesso una volta un Atti evirato, quel famoso dio di Pessinunte, e uno il quale aveva la parte di Ercole assunto e ardeva vivo. Ho riso, assistendo anche agli svaghi atroci dei ludi meridiani, davanti a un Mercurio, che i morti col cauterio esaminava; ho veduto anche il fratello di Giove che, armato di martello, i cadaveri dei gladiatori trascinava via.

[6] Tutti codesti fatti, e quanti altri ancora avrebbe uno potuto investigare, se l'onore scuotono della divinità, se gli attributi della maestà divina disonorano, hanno certo origine dal disprezzo in cui sono tenuti tanto gli dei che li compiono; quanto gli spettatori, per il cui divertimento li compiono.

[7] Ma sia pure: codesti sono passatempi. - Ma se io aggiungessi quello che la coscienza di tutti non meno riconoscerà vero, cioè che nei templi si combinano adulteri, che fra gli altari ruffianerie si compiono, che spesso proprio nelle celle dei custodi e dei sacerdoti, proprio sotto le bende e i berretti e le porpore, tra il fumo degli incensi si dà sfogo alla libidine, non so se gli dei vostri, più che dei Cristiani, abbiano di che lamentarsi di voi. Certo i sacrileghi sempre tra i vostri sono còlti: ché i Cristiani i templi nemmeno di giorno conoscono. Li spoglierebbero, forse, anch'essi, se anch'essi li venerassero. [8] Orbene, che è quello che onorano coloro che tali cose non onorano? è facile senz'altro intendere che della verità sono cultori coloro che non sono cultori della menzogna, che più non errano in ciò, in cui riconoscendo di avere errato, hanno cessato di errare. Codesto prima comprendete; e di qui tutto il seguito del nostro culto apprendete, dopo, per altro, che confutate saranno le false opinioni vostre in merito.

CAPO 16 -- Stupida e falsa è l'accusa che i Cristiani adorino una testa d'asino. Adoriamo una croce? Non sono forse di croci e sopra croci fabricati i vostri dei?

[1] E invero, come ha scritto un tale, avete sognato che una testa d'asino è il nostro dio. Codesto tale sospetto l'ha introdotto Cornelio Tacito.

[2] Costui, infatti, nel libro quinto delle sue Storie, prendendo a raccontare la guerra giudaica dall'origine della gente, dopo aver anche congetturato quello che ha voluto, tanto su l'origine stessa, quanto sul nome e la religione della gente, narra che i Giudei, liberati dall'Egitto o, com'egli credette, banditine, trovandosi nelle vaste località dell'Arabia, quanto mai prive di acqua, tormentati dalla sete, su l'indizio di onagri, che si credeva si recassero, per avventura, dopo il pasto, a bere, poterono far uso di sorgenti; e per questo beneficio la figura di una bestia simile consacrarono. Così di qui si presunse, penso, che anche noi, come parenti della religione giudaica, all'adorazione della medesima immagine venissimo iniziati. Vero è che il medesimo Cornelio Tacito, pur essendo quel gran chiacchierone di menzogne, nella stessa Storia racconta che Gneo Pompeo, presa Gerusalemme ed entrato perciò nel tempio allo scopo di osservare gli arcani della religione giudaica, nessun simulacro colà trovò.

[3] E in verità, se si onorava cosa, che per via di qualche figura era rappresentata, in nessun luogo, meglio che nel suo sacrario, avrebbe potuto essere esposta, tanto più che quel culto, pur vano, presenza di estranei non temeva. Infatti solo ai sacerdoti era lecito entrare; anche la vista ne era impedita agli altri da un velo disteso.

[4] Tuttavia voi non negherete di adorare tutte le razze di giumenti e muli tutt'interi con la loro Epona. Ma forse per questo ci si muove rimprovero, perché tra gli adoratori di bestiame e di belve d'ogni sorta, di asini soltanto adoratori siamo.

[5] Ma anche chi ci crede adoratori di una croce, sarà nostro correligionario. Quando si adora un legno, poco importa il suo aspetto, essendo la stessa la qualità della materia; poco importa la forma, quando proprio codesto legno sia il corpo di un dio. E tuttavia quanto poco si differenzia dal legno di una croce Pallade attica e Cerere faria, che senza figura si presentano, rozzo palo e legno informe!

[6] Parte di una croce è ogni legno, che piantato viene in posizione verticale. Noi, se mai, adoriamo un dio intero e completo. Ho detto che, quale forma iniziale degli dei vostri, i modellatori abbozzano una croce. Ma anche le Vittorie adorate nei trofei, mentre dei trofei le croci formano le parti interiori.

[7] Tutta la religione romana degli accampamenti venera le insegne, giura per le insegne, le insegne antepone a tutte le divinità. Tutta quella congerie di immagini su le insegne, sono monili apposti a croci; quei veli degli stendardi e delle bandiere, di croci sono rivestimento. Lodo la vostra diligenza: consacrare non avete voluto delle croci disadorne e nude. [8] Altri, indubbiamente con un concetto di noi più umano e verisimile, credono che il sole sia il nostro dio. Se mai, saremo messi fra i Persiani, sebbene non il sole dipinto in un lenzuolo adoriamo, avendolo, esso proprio, dovunque, nel suo disco.

[9] Di qui in fin dei conti un tale sospetto: è noto che noi si prega rivolti dalla parte d'oriente. Ma anche molti di voi, affettando di adorare qualche volta pur cose celesti, le labbra muovete volti dove sorge il sole.

[10] Del pari, se il giorno del sole concediamo alla gioia per un ben altro motivo che per il culto del sole, veniamo al secondo posto dopo coloro che il giorno di Saturno all'ozio e alla crapula dedicano, differenziandosi essi pure dal costume giudaico, che ignorano. [11] Ma una nuova rappresentazione del dio nostro è stata già recentemente in codesta città divulgata, dacché un criminale, assoldato per frustrare l'assalto delle bestie, espose un dipinto con una scritta di questo tenore: 'il dio dei Cristiani, razza di asino'. Questo dio aveva orecchie d'asino e un piede munito di zoccolo e recava un libro e la toga. Ridemmo e del nome e della figura.

[12] Sennonché essi, gl'inventori della rappresentazione, senz'altro adorare avrebbero dovuto il nume biforme, dacché dei con testa di cane e di leone, con corna di capro e di ariete, becchi a partire dai lombi, serpenti nell'ima parte e alati nelle piante e nel tergo promiscuamente accolsero. Tutto codesto per abbondare, al fine di non aver omesso, in certo modo scientemente, nessuna diceria, senza averla confutata. Di tutto ciò ci scolperemo nuovamente, volgendoci senz'altro alla esposizione della religione nostra.

CAPO 17 -- Il Dio dei Cristiani.

[1] Ciò che noi adoriamo, è un Dio unico, che tutta codesta mole, insieme a tutto il corredo di elementi, corpi, spiriti, con la parola con cui comandò, con la ragione con cui dispose, con la virtù con cui potè, dal nulla trasse fuori a ornamento della sua maestà; onde anche i Greci all'universo dettero il nome di "kòsmos".

[2] Esso è invisibile, sebbene si veda; inafferrabile, sebbene per grazia si renda presente; incomprensibile, sebbene si lasci dalle facoltà umane comprendere: per questo è vero e così grande. Il resto che comunemente si può vedere, afferrare, comprendere, minore è degli occhi da cui è abbracciato, della mano con cui viene a contatto, dei sensi da cui viene scoperto.

[3] Invece ciò che è incommensurabile, solo a se stesso è noto. Questo è ciò che Dio fa comprendere, il fatto che di essere compreso non cape; così l'immensità della sua grandezza agli uomini lo presenta noto e ignoto. E in questo sta la colpa principale di coloro che riconoscere non vogliono Colui, che ignorare non possono.

[4] Volete che lo proviamo dalle di Lui opere, tante e tali, onde siamo circondati, sostentati, allietati, spaventati anche? Volete che lo proviamo in base alla testimonianza dell'anima stessa?

[5] La quale, pur nel carcere del corpo serrata, pur da insegnamenti pravi circondata, pur da passioni e concupiscenze svigorita, pur a false divinità asservita, tuttavia, quando ritorna in sè come dopo l'ubriachezza o un sonno o qualche malattia, e il possesso riprende della sua condizione sana, fa il nome di Dio, con questa sola parola, poiché è propria del Dio vero: e 'Dio buono e grande', e 'quello che a Dio piacerà' sono le parole di tutti. 6. Anche quale giudice lo attesta: 'Dio vede' e 'a Dio mi affido' e 'Dio me lo renderà'. O testimonianza dell'anima naturalmente cristiana! In fine, pronunciando queste parole, non al Campidoglio, ma al cielo volge lo sguardo. Conosce infatti la sede del Dio vivente: da Lui e di là essa è discesa.

CAPO 18 -- Divina missione dei profeti del popolo ebreo; e della Santa Scrittura.

[1] Ma, affinché più completamente ed a fondo sia alla conoscenza di Lui, che delle sue disposizioni e volontà arrivassimo, il mezzo Egli aggiunse del documento scritto, qualora uno intorno a Dio indagare voglia e, indagatolo, trovarlo e, trovatolo, credere e, credutolo, servirlo. [2] E invero fin dai primordi uomini mandò nel mondo per la loro intemerata giustizia degni di conoscere e manifestare Dio, di spirito divino inondati, affinché predicassero che un Dio unico esiste, il quale l'universo creò e l'uomo fabricò di terra (questo infatti è il vero Prometeo che il mondo con determinate disposizioni e successioni di stagioni ordinò);

[3] inoltre, quali segni della maestà sua giudicatrice abbia con piogge e fulmini manifestato, quali leggi fissate per bene meritare di Lui, quali retribuzioni destinate all'ignoranza, al disconoscimento e all'osservanza di queste: come Colui che, compiuta codesta età, sarà per giudicare i suoi cultori, retribuendoli con la vita eterna, gli empi con il fuoco ugualmeate perpetuo e continuo, dopo avere risuscitati, rinnovati e passati in rassegna tutti, quanti dall'inizio del mondo sono morti, per valutarne il merito e il demerito.

[4] Anch'io ho riso un tempo di ciò. Provengo dai vostri. Cristiani si diventa, non si nasce.

[5] Quei predicatori, di cui ho parlato, dal loro ufficio di predire si chiamano profeti. Le parole loro e, del pari, i prodigi che compivano per far fede della loro missione divina, si conservano nel deposito della letteratura; nè questa è nascosta. Il più erudito dei Tolomei, quello che sopranominano Filadelfo, perspicacissimo conoscitore di ogni letteratura, emulando, penso, Pisistrato nella passione delle biblioteche, fra gli altri documenti storici, con cui veniva raccomandata alla fama o l'antichità o qualche curiosità, per suggerimento di Demetrio Falereo, fra i grammatici di allora lodatissimo, al quale aveva affidato un governo, richiese libri anche ai Giudei, documenti letterari propri e scritti nella loro lingua, che essi solo possedevano.

[6] Da essi, infatti, provenendo, ad essi, anche, sempre i profeti avevano parlato, vale a dire, come a un popolo della Casa di Dio, per grazia ottenuta dai loro padri. Prima d'ora si chiamavano Ebrei, quelli che ora Giudei; perciò ebrea la letteratura e la parlata.

[7] Orbene, perché non mancasse di quei libri la conoscenza, codesta anche fu dai Giudei a Tolomeo accordata, con la concessione di settantadue interpreti, cui anche Menedemo filosofo, assertore della Provvidenza, per la comunanza delle idee ammirò. Affermò a voi codesto anche Aristeo.

[8] Così quei documenti in lingua greca tradotti, nella biblioteca di Tolomeo oggi si esibiscono nel Serapeo, insieme con gli originali ebraici.

[9] Ma i Giudei anche li vanno publicamente leggendo. Libertà pagata con un'imposta: tutti comunemente vi si recano il sabato. Chi ascolterà (quella lettura) troverà Dio; chi anche si studierà di comprendere, si sentirà costretto a credere.

CAPO 19 -- L'autorità della Santa Scrittura è provata dalla sua antichità: maggiore di qualsivoglia documento pagano.

[1] A questi documenti l'autorità rivendica anzi tutto la somma loro antichità. Anche tra voi il lungo tempo, assunto a sostenere la credibilità, tien luogo di un valore religioso.

[2] Pertanto tutta la sostanza e tutti i materiali, le origini, le date, le fonti di qualsivoglia vostra antica scrittura, la più parte anche delle nazioni e città famose nella storia e le memorie vetuste: in fine, le forme stesse dell'alfabeto, indici e custodi dei fatti, e - credo di dire ancora poco - gli stessi vostri dei, i templi stessi, dico, e gli oracoli e i riti sorpassa, pur di secoli lo scrigno racchiudente alle volte, un solo profeta, nel quale collocato si vede il tesoro di tutta la religione giudaica e, in seguito, pur della nostra. [3] Se mai avete sentito, talora, nominare un Mosè, esso è dell'argivo Inaco contemporaneo: precede di quasi 400 anni (ne mancano 7) lo stesso Danao, anch'esso tra voi antichissimo; e precede di circa mille anni la rovina di Priamo: potrei pure aggiungere, di più di 500 anni anche Omero, avendo autori cui attenermi.

[4] Anche gli altri profeti, sebbene a Mosè posteriori, tuttavia gli ultimissimi di loro non si scoprono forse anteriori ai vostri primi sapienti, legislatori e storici?

[5] In base a quali dati tutto ciò possa provarsi non è tanto difficile per me esporlo, quanto fuor di proposito; non tanto arduo, quanto, per ora, lungo. Bisognerebbe su molti documenti, con gesti calcolatorii delle dita, intrattenersi, inoltre gli archivi dischiudere delle genti più antiche, degli Egiziani, dei Caldei, dei Fenici;

[6] fare intervenire i loro connazionali, per opera dei quali la notizia è stata somministrata: un Manetone egiziano e un Beroso caldeo e, inoltre, Ieromo fenicio, re di Tiro; ed anche altri che li seguirono, Tolomeo di Mendes e Menandro di Efeso e Demetrio Falereo e il re Giuba e Apione e Tallo e il giudeo Giuseppe, che costoro approva o confuta, delle antichità giudaiche rivendicatore indigeno.

[7] E s'avrebbero pure a confrontare i cronografi greci, e quello che è avvenuto e quando, per scoprire le concatenazioni dei tempi e, per mezzo di queste, le date storiche mettere in luce: si dovrebbe peregrinare attraverso la storia e la letteratura mondiale. Tuttavia abbiamo già recato in certo modo una parte della dimostrazione, avendo accennato con quali mezzi la dimostrazione si possa ottenere.

[8] Ma è meglio differire, per non correre pericolo di esporre, per la fretta, meno di quanto si dovrebbe, o di vagabondare troppo lontano per volerlo compiutamente esporre.

CAPO 20 -- Divinità della Scrittura Santa, provata in base all'avverarsi delle profezie in quella contenute.

[1] Io offro ora di più in compenso di questa dilazione: la maestà delle Scritture, se non la loro antichità; le provo divine, se se ne pone in dubbio l'antichità. Né codesto più tardi o da altra fonte apprenderlo occorre: davanti a noi sta quello che ce lo dimostrerà, il mondo, la generazione e il compiersi degli eventi. [2] Quanto si fa, era preannunziato, quanto si vede si udiva: il fatto che le terre divorano le città, che i mari involano le isole, che guerre esterne e interne dilaniano, che i regni contro i regni cozzano, che la fame, la peste e tutte le calamità locali e le mortalità spesso frequenti la devastazione recano, il fatto che gli umili il posto prendono dei sublimi, i sublimi quello degli umili; [3] che la giustizia si fa rara, l'iniquità frequente, l'amore per tutte le buone discipline s'intorpidisce; il fatto che gli uffici pure delle stagioni e le funzioni degli elementi sgarrano, che da fatti mostruosi e prodigi l'aspetto della natura è sconvolto: tutto ciò è stato scritto prevedendolo. Mentre lo subiamo, lo si legge; mentre ne prendiamo conoscenza, ne abbiamo la prova. Testimonianza sufficiente, penso, di carattere divino l'avverarsi della profezia. [4] Da ciò pertanto tra noi anche sicura diviene la credenza dell'avverarsi del futuro, ormai - è chiaro - provato, in quanto predetto veniva insieme con quei fatti che quotidianamente si verificano: le stesse voci risuonano, la stessa scrittura lo annota, la stessa inspirazione lo pervade: uno solo è il tempo per la profezia di predire il futuro; [5] tra gli uomini, se mai, viene distinta, man mano che si avvera, mentre dal futuro il presente, indi dal presente si separa il passato. Che torto abbiamo - domando a voi - se nel futuro anche crediamo, noi che attraverso due gradi abbiamo già imparato a credervi?

CAPO 21 -- In che la religione cristiana differisce dalla giudaica, con cui pure ha tanto in comune: Cristo, il Verbo e Figlio di Dio, fattosi uomo per la nostra salvezza.

[1] Ma poiché ho esposto che cotesta nostra setta - che i più sanno essere alquanto recente, come quella che è del tempo di Tiberio (e noi anche lo ammettiamo) - su gli antichissimi documenti dei Giudei si appoggia, forse la sua condizione potrebbe essere messa in discussione con questo pretesto, che essa sotto l'ombra, per così dire, di una religione quant'altra mai insigne, certamente permessa, una parte di credenze sue proprie nasconde: 

[2] o perché, a parte l'età, né sul conto delle astinenze dal mangiare, né dei giorni solenni, né dello stesso contrassegno del corpo, né della comunanza del nome abbiamo nulla che fare con i Giudei, mentre tutto codesto dovrebbe in verità essere comune, se al servizio del medesimo Dio fossimo.

[3] Oltre a ciò il volgo ormai conosce Cristo come un uomo, quale i Giudei lo giudicarono; onde più facilmente qualcuno di un uomo adoratori ritenerci potrebbe. Sennonché né arrossiamo di Cristo, quando, invece, essere accusati e condannati nel suo nome ci torna gradito; né sul conto di Dio avere un'opinione differente da quella dei Giudei pretendiamo. è necessario dunque che poche parole io dica di Cristo, come Dio. 

[4] Sotto ogni rispetto i Giudei grazia godevano presso Dio, tra i quali una insigne giustizia perdurava e la fede dei primi fondatori: onde tra essi la grandezza della razza fiorì e la potenza del regno e tanto felice condizione, da essere preammoniti dalle voci di Dio, dalle quali erano istruiti circa i mezzi per meritarsi il favore di Dio e per non offenderlo. 

[5] Ma in quante colpe essi siano caduti, dalla fiducia nei loro padri gonfiati a sviarsi, in modo empio dalla legge allontanandosi, anche se essi nol confessassero, la riuscita loro odierna lo proverebbe. Dispersi, errabondi, dal suolo e dal cielo loro banditi, errando vanno per il mondo, senza un uomo, senza Dio per loro capo; nemmeno a titolo di stranieri ad essi salutare è permesso, sia pure per un istante, la patria terra. 

[6] Mentre a loro codeste sventure le sante voci preannunciavano, del pari tutte sempre aggiungevano che verso l'estremo scorcio dell'età Dio da ogni gente e popolo e luogo ormai degli adoratori si sceglierebbe molto più fedeli, nei quali la sua grazia trasferirebbe in misura in vero più abbondante, per la loro capacità di accogliere una legge più completa. 

[7] Venne dunque Colui che era da Dio preannunciato che venuto sarebbe a rinnovare e illustrare quella legge, quel Cristo, figlio di Dio. Dunque l'arbitro di questa grazia e maestro di questa legge, illuminatore e guida del genere umano, come figlio di Dio era annunziato; in verità non così generato, da dover arrossire del nome di figlio o del seme del padre. 

[8] Non sopportò quale padre, tale divenutogli in seguito a un incesto compiuto su la sorella o la fornicazione con la figlia o con una moglie altrui, un dio squamoso o cornuto o pennuto o, come l'amante di Danae, mutato in oro. Codeste sono prodezze del vostro Giove. 

[9] Invece il Figlio di Dio non ha nessuna madre in seguito a un atto impudico: anche quella che vediamo ch'Egli ha, non era sposata. Ma prima ne esporrò la natura, e così la qualità si comprenderà del suo nascere. 

[10] Già ho esposto come Dio questo mondo universo con la parola, la ragione, la potenza sua creò. Anche presso i vostri Sapienti consta che il "Logos", vale a dire la parola e la ragione, quale artefice appare dell'universo. Questo infatti Zenone stabilisce essere il creatore, che ogni cosa formò e dispose; e che esso si chiama anche fato e dio e anima di Giove e necessità di tutte le cose. Questo concetto Cleante raccoglie nell'idea di spirito, che afferma permeare l'universo. 

[11] Noi pure alla parola e ragione e del pari virtù, per cui abbiamo detto avere Dio creato ogni cosa, attribuiamo una sostanza spirituale propria, in cui è la parola quando pronunzia, cui assiste la ragione, quando dispone, guida la virtù, quando attua. Questa parola abbiamo compreso essere stata da Dio proferita e, nel proferirla, generata; e perciò Figlio di Dio e Dio essere stata chiamata per l'unità della sostanza. Ché anche Dio è spirito. 

[12] Or quando il raggio viene emesso dal sole, è parte di un tutto; ma nel raggio ci sarà il sole, ché al sole appartiene il raggio, né la sostanza subisce una separazione, ma si estende. Così da spirito spirito e da Dio Dio, come lume acceso da lume. Integra rimane e senza perdite la materia matrice, sebbene più di una propaggine qualitativa tu di li tragga. 

[13] Così ciò che è partito da Dio è Dio e Figlio di Dio e un Dio unico entrambi: secondo nell'ordine, costituì numero per grado, non per condizione, e dalla matrice non si distaccò, ma emanò. 

[14] Orbene questo raggio di Dio, come per l'addietro era sempre preannunziato, in una vergine disceso e presa nel suo grembo forma di carne, nasce uomo unito a Dio. La carne, plasmata di spirito, si nutre, cresce, parla, ammaestra, opera: è Cristo. Accettate per ora questa leggenda (è simile alle vostre), mentre vi dimostro come Cristo si provi; e chi siano coloro che tra voi hanno in precedenza leggende del genere, ostili a questa, somministrato, per distrugger di questa la verità. 

[15] Anche i Giudei sapevano che sarebbe nato Cristo, come quelli ai quali parlavano i profeti. E invero anche ora la sua venuta aspettano; né v'è altro contrasto fra noi e loro più grande di questo, che essi non credono che Egli sia già venuto. Infatti essendo state annunziate due sue venute, una, che già s'è verificata nell'umiltà della condizione umana, l'altra, che alla chiusura del mondo sovrasta, nella sublimità della divinità manifestantesi, non comprendendo la prima, attendono la seconda, che, più chiaramente predetta, hanno creduto unica. 

[16] Che non comprendessero la prima (vi avrebbero creduto, se l'avessero compresa, e la salvezza avrebbero conseguito, se vi avessero creduto) fu delle loro colpe conseguenza. Essi leggono scritto codesto: che essi sono stati puniti nel senno, nell'intelligenza, nel bene degli occhi e delle orecchie. 

[17] Colui, pertanto, che essi unicamente uomo, per la sua umiltà, avevano presunto, ne segui che essi lo stimassero un mago per la sua potenza: ché egli con la parola i demoni cacciava dagli uomini, la vista ai ciechi riaccendeva, i lebbrosi purificava, i paralitici rinvigoriva, in fine con la sola parola i morti alla vita restituiva, gli elementi stessi a servirlo costringeva, le procelle arrestando, camminando sul mare, di essere dimostrando quel Verbo primordiale di Dio, primogenito, da potenza e ragione accompagnato e dallo Spirito sorretto, quello stesso che con la parola tutto creava e aveva creato. 

[18] In presenza della sua dottrina, da cui venivano soprafatti, i maestri e i maggiorenti dei Giudei si esasperavano al punto (tanto più che un'immensa moltitudine piegava a lui), che alla fine davanti a Ponzio Pilato lo trassero, il quale allora la Siria per parte dei Romani governava; e con la violenza dei loro consensi gli estorsero che fosse loro consegnato per essere crocifisso. Lo aveva predetto egli pure che così avrebbero fatto: questo sarebbe poco, se predetto non lo avessero precedentemente anche i profeti. 

[19] E tuttavia, confitto in croce, molti prodigi, propri di quella morte, manifestò. Ché lo spirito emise da sé con la parola, l'ufficio prevenendo del carnefice. Nello stesso istante il giorno, mentre il sole a mezzo il suo giro segnava, fu sottratto. è vero, la stimarono un'eclisse coloro che non seppero che codesto, anche, sul conto di Cristo era stato predetto. Con tutto ciò quell'avvenimento mondiale registrato lo trovate nei vostri archivi. 

[20] Allora i Giudei, calatolo e ripostolo in un sepolcro, di una forte guardia di soldati anche lo circondarono, diligentemente custodendolo: affinché, avendo egli predetto che da morte il terzo giorno sarebbe risorto, i discepoli, furtivamente il cadavere sottraendo, non deludessero i loro sospetti. 

[21] Ma ecco il terzo giorno improvvisamente la terra si scuote, la pietra pesante, che il sepolcro chiudeva, viene rovesciata, la guardia per lo spavento si disperde; e senza che nessun discepolo si mostrasse, nient'altro fu entro il sepolcro trovato che le spoglie di un sepolto. 

[22]  Con tutto ciò i maggiorenti, cui a cuore stava divulgare la presenza di un delitto, e il popolo, loro tributario e soggetto, distogliere dal credere, la voce sparsero che era stato dai suoi discepoli sottratto. E invero nemmeno egli uscì tra la moltitudine, affinché gli empi non si liberassero dall'errore, e perché la fede, a un non piccolo premio destinata, costasse difficoltà. 

[23] Ma con alcuni discepoli visse in Galilea, regione della Giudea, circa quaranta giorni, loro insegnando quello che insegnare avrebbero essi dovuto. Quindi, dopo averli delegati all'ufficio di predicare per il mondo, da una nube circonfuso, fu accolto in cielo, molto più veracemente di quanto tra voi i Proculi di Romolo affermare sogliono. 

[24] Tutti questi avvenimenti riguardanti Cristo, Pilato, egli pure dentro di sè cristiano, al Cesare di allora, Tiberio, annunziò. Ma anche i Cesari avrebbero in Cristo creduto, se o i Cesari non fossero necessari al mondo, o i Cesari essere anche cristiani avessero potuto. 

[25] Inoltre i discepoli, sparsisi per il mondo, in conformità del comando del maestro Dio, obbedirono; e dopo aver molto sofferto essi pure per parte dei Giudei, che li perseguitavano, da ultimo, a causa della crudeltà di Nerone, per la fede nella Verità ben volentieri in Roma sangue cristiano seminarono. 

[26] Ma vi mostrerò dei testimoni degni di Cristo proprio in coloro, che voi adorate. Gran cosa è se, per farvi credere ai Cristiani, mi valgo di quelli, per opera dei quali ai Cristiani non credete. Per ora questa è la cronologia della nostra instituzione, questa della setta l'origine e del nome, che insieme col suo autore vi ho dichiarato. 

[27] Nessuno più ci diffami, nessuno ad altra cosa pensi, chè a nessuno mentire è lecito sul conto della propria religione. E invero col fatto che egli dice di adorare altro da quello che adora, rinnega quello che adora; e l'adorazione e il culto trasferisce in altro, e, in altro trasferendolo, non adora più quello che ha rinnegato. 

[28] Lo diciamo e apertamente lo diciamo; e dilaniati e insanguinati a voi che ci torturate lo gridiamo: 'adoriamo Dio per mezzo di Cristo'. - Ritenetelo pure un uomo: per mezzo di Lui e in Lui Dio essere conosciuto e adorato vuole. 

[29] Per rispondere ai Giudei, affermo che essi pure ad adorare il Signore per mezzo di un uomo appresero, Mosè; per fronteggiare i Greci, dico che Orfeo nella Piena, Museo in Atene, Melampo in Argo, Trofonio in Beozia gli uomini obligarono per mezzo di iniziazioni; per guardare anche a voi, dominatori dei popoli, fu un uomo, Numa Pompilio, che i Romani gravò di penosissime superstizioni. 

[30] Può essere stato lecito anche a Cristo inventare una divinità, come sua proprietà: non per disporre a umanità uomini zotici e ancora barbari, sbalordendoli con una moltitudine di tanti dei da doversi propiziare, come fece Numa; ma per illuminare con essa divinità e condurre alla conoscenza della verità uomini ormai civilizzati e dalla stessa loro civiltà ingannati. Cercate, dunque, se codesta divinità di Cristo è vera. 

[31] Se è tale che uno, conosciutala, si rinnova alla pratica del bene, ne segue che si palesi e dichiari con ogni ragione falsa, anzi tutto, quella che, nascondendosi sotto nomi e immagini di morti, per via di certi segni e miracoli e oracoli la credenza produce nella sua divinità.

CAPO 22 -- Origine, natura e attività dei demoni.

[1] Appunto noi affermiamo esistere certe sostanze spirituali. Il nome non n'è nuovo: i filosofi conoscono i demoni, chè Socrate stesso in attesa stava della volontà di un demone. Come no? dal momento che si dice che anche a lui un demone fin dalla fanciullezza si fosse messo ai fianchi, per dissuaderlo, è chiaro, dal bene. 

[2] Tutti i poeti sanno che i demoni esistono; anche il volgo indotto entrare li fa sovente nell'uso delle maledizioni. E invero anche il nome di Satana, principe di questa mala genia, con la voce stessa pronuncia dell'esecrazione, come per una consapevolezza propria dell'anima. Quanto anche agli angeli, nemmeno Platone ne negò l'esistenza. L'uno e l'altro nome perfino i Maghi sono lì ad attestarlo. 

[3] Ma come da certi angeli, per loro volontà corrotti, la gente più corrotta dei demoni sia derivata, da Dio condannata insieme con gli autori della loro razza e con quel loro principe che ho nominato, per ordine si conosce nella Scrittura santa. 

[4] Per ora parlare basterà intorno alla loro attività. L'attività loro è dell'uomo il pervertimento: così di quegli spiriti la perversità fin dai primordi s'iniziò, a rovina dell'uomo. Pertanto ai corpi malattie invero arrecano e casi dolorosi; all'anima, invece, turbamenti repentini e straordinari, violentandola. Li soccorre, per arrivare all'una e all'altra sostanza dell'uomo, la loro sottigliezza e tenuità. 

[5] Molto lice a delle forze spirituali, talché, invisibili e impercettibili, piuttosto nei loro effetti si rivelano, che nei loro atti: qualora i frutti o le biade non so quale vizio dell'aria occulto distrugga in fiore o uccida in germe o ferisca nel loro sbocciare; e qualora un'aria viziata in maniera inesplicabile dei suoi soffi pestilenziali li investa. 

[6] Orbene con la medesima forma occulta di contagio, dei demoni-angeli l'inspirazione anche le corruttele produce della mente, con furori e follie sconce o libidini crudeli accompagnate da errori vari, dei quali il principale è questo, con cui alle menti ingannate e soprafatte degli uomini il culto raccomanda di codesti vostri dei, per procurare a sè il pasto loro proprio, vale a dire il profumo delle vittime e il sangue offerti ai simulacri e alle immagini. 

[7] E quale pasto più squisito v'è per essi, che la mente dell'uomo dal pensiero della vera divinità stornare con fallacie ingannatrici? Come codeste appunto riescano a compiere, esporrò. 

[8] Ogni spirito è alato: codesta qualità possiedono gli angeli-demoni. Perciò in un istante sono da per tutto. Tutto il mondo è per essi un luogo solo: quanto e dove si compia, con la stessa facilità sanno, con cui lo annunziano. Questa velocità loro si ritiene divina, perché se ne ignora la natura. Così talora anche apparire vogliono autori di quanto annunziano. 

[9] E indubbiamente autori sono di mali, talora: di beni, però, mai. Anche le disposizioni di Dio colsero un tempo, quando i profeti le rivelarono al pubblico, e colgono ora, quando si leggono ad alta voce. Così di qui certi pronostici desumendo del tempo futuro, di emulare tentano la divinità, mentre rubano la divinazione. 

[10] Con quale abilità, poi, negli oracoli le ambiguità adattino agli eventi, lo sanno i Cresi, lo sanno i Pirri. Del resto che si stava cuocendo una testuggine con carne di agnello, il Pitio lo annunziò nel modo sopra detto: in un attimo era stato in Lidia. Hanno anche mezzo di conoscere le condizioni del cielo, per via del loro abitare nell'aria, del trovarsi in vicinanza degli astri e in contatto con le nubi, così da promettere piogge, di cui già hanno sentore. 

[11] è vero, benefici anche sono nei riguardi delle cure delle malattie. Infatti in un primo tempo danneggiano, poi, per ottenere il miracolo, rimedi strani o contrari prescrivono: dopo di che di danneggiare cessano e che abbiano guarito si crede. 

[12] Che dire, dunque, delle altre ingegnosità o anche capacità di questi spiriti fallaci? dei fantasmi dei Castori, dell'acqua recata entro uno staccio e della nave fatta avanzare con un cinto e della barba fatta rossa col contatto, affinché delle pietre fossero credute numi e il Dio vero non fosse cercato?

CAPO 23 -- Demoni sono gli dei adorati dai Pagani, come confessano quegli stessi dei, quando vi sono costretti dallo scongiuro dei Cristiani

[1] Inoltre, se anche i Maghi creano dei fantasmi e le anime dei defunti perfino disonorano, se bimbi trucidano, per trarre la rivelazione di un responso, se con fallacie ingannatrici molti miracoli si divertono a operare, se anche sogni inspirano, in loro assistenza avendo il Potere degli angeli-demoni, una volta per tutte invitati, per opera dei quali capre e mense hanno per costume di divinare: quanto più quel potere per proprio conto e per proprio interesse non dovrebbe con tutte le forze studiarsi di operare quello che al servizio mette di un interesse altrui! 

[2] Oppure, se gli angeli-demoni quello stesso operano che anche i vostri dei, dov'è in tal caso la superiorità della divinità, che certamente credere si deve essere superiore ad ogni potere? Non sarà dunque più conveniente presumere essere essi, i demoni, che si fanno dei, quando le medesime cose operano che li fanno passare per dei, piuttosto che ritenere che gli dei pari siano agli angeli-demoni? 

[3] Si fa distinzione e differenza, penso, fra i luoghi, di modo che nei templi ritenete dei quelli, che altrove dei non chiamate; talché diversamente sembri fare il pazzo uno che le sacre torri trasvola, e diversamente quello che i tetti dei vicini attraversa; e che un'altra potenza si riveli in colui che i genitali o le braccia, e in colui che la gola si sega. Pari le conseguenze della pazzia furiosa, uno è il genere dell'instigazione. 

[4] Ma basta con le parole. D'ora in avanti dimostrazione proprio di fatti, con cui vi proverò essere la stessa la qualità di entrambi i nomi. Si mostri qui, proprio davanti ai vostri tribunali, uno che sotto l'azione di un demone essere risulti: all'imposizione di parlare, fattagli da un cristiano qualsivoglia, quello spirito veracemente confesserà di essere un demone, come altrove falsamente confessò di essere un dio. 

[5] Ugualmente si conduca innanzi uno di quelli che sono ritenuti subire l'influenza di un dio, di coloro che, sopra le are alitando, la divinità aspirano dal profumo, coloro, che a furia di rutti guariscono, che ansimando profetizzano. 

[6] Codesta stessa vergine Celeste, di pioggia promettitrice, codesto stesso Esculapio, di rimedii rivelatore, somministratore della vita a un Socordio, a un Tenatio, a un Asclepiodoto, destinati a morire l'indomani: se di essere demoni non confesseranno, a un cristiano mentire non osando, lì stesso il sangue di quel cristiano sfrontatissimo versate. 

[7] Che di più chiaro di un tale procedimento? Che di più fedele di una tale prova? La verità semplice è nel mezzo, la sua virtù l'assiste: non sarà permesso aver sospetti. Direte che codesto per virtù di magia avviene o per un imbroglio del genere, se i vostri occhi o le vostre orecchie ve lo permetteranno. 

[8] Ma che si può obiettare contro ciò che nella nuda sincerità si mostra? Se, d'altra parte, sono veramente dei, perché di essere demoni, mentendo, dicono? Forse per fare piacere a noi? Allora senz'altro la vostra divinità ai Cristiani è soggetta. Ma non è da stimarsi divinità quella che a un uomo è soggetta e, ciò che torna a disdoro, a un suo nemico. 

[9] Se, d'altra parte, sono vuoi demoni, vuoi angeli, perché altrove di agire in qualità di dei rispondono? E invero, come quelli che sono ritenuti dei chiamarsi demoni non avrebbero voluto, se veramente fossero dei - è chiaro, per non rimetterci della loro maestà -, così anche questi, che positivamente conoscete essere demoni, altrove agire in qualità di dei non oserebbero, se effettivamente degli dei esistessero, dei cui nomi abusano: avrebbero, infatti, timore di abusare della maestà di esseri a loro senza dubbio superiori, e tali da doversi paventare. 

[10] Così non esiste affatto codesta divinità, che ritenete esistere; perché, se esistesse, né i demoni confesserebbero di simularla, né gli dei la rinnegherebbero. Poiché dunque l'una e l'altra parte in una confessione si accordano, l'esistenza negando degli dei, riconoscete che esiste un'unica genia, quella dei demoni, dall'una parte e dall'altra realmente. 

[11] Ora cercate degli dei: ché quelli che tali avevate presunti, conoscete essere demoni. Ugualmente per opera mia, per bocca dei medesimi dei vostri rivelanti, non solo non essere dei essi e nemmeno nessun altro, ma anche codesto contemporaneamente verrete a conoscere, chi sia veramente Dio, se quello e unico che i Cristiani confessano; e se creduto e adorato essere debba così, come la fede dispone e la disciplina dei Cristiani. 

[12] Diranno in pari tempo anche chi sia quel Cristo con la sua leggenda: se un uomo di condizione comune, se un mago, se dopo la morte dai discepoli sottratto al sepolcro; se ora finalmente si trovi tra gl'inferi, se non piuttosto in cielo, destinato a venire di là tra il sommovimento di tutto l'universo, tra l'orrore del mondo, tra il pianto universale, non però dei Cristiani; quale possanza di Dio e spirito di Dio e parola e sapienza e ragione e figlio di Dio. 

[13] Si provino a ridere anch'essi con voi di tutto quanto ridete voi; si provino a negare che Cristo ogni anima restituita dall'inizio dei tempi al corpo giudicherà; si provino a dire davanti a questo tribunale se per avventura codesto ufficio Minosse e Radamanto hanno sortito, secondo la concorde opinione di Platone e dei poeti. 

[14] Si provino almeno a respingere il marchio della loro vergognosa condanna; neghino di essere spiriti immondi, cosa che anche dalle loro pasture si sarebbe dovuta comprendere, dal sangue e dal fumo e dai puzzolenti roghi degli animali e dalle lingue impurissime degli stessi vati; neghino di essere stati per la loro malizia in precedenza condannati per il giorno medesimo del giudizio con tutti i loro adoratori e le loro operazioni. 

[15] Sennonché tutto codesto dominio e potestà nostra su di loro la sua forza trae dal pronunciare il nome di Cristo e dal ricordare quello che secondo il volere di Cristo loro da parte di Dio sovrasta e attende. Cristo temendo in Dio e Dio in Cristo, ai servi di Dio e di Cristo si assoggettano. 

[16] Così per il solo contatto e soffio nostro, dalla vista afferrati e dalla rappresentazione di quel fuoco, al nostro comando anche si allontanano dai corpi, di malavoglia e dolenti e vergognosi per la vostra presenza. Credete loro, quando sul proprio conto il vero parlano, voi che loro credete quando mentiscono. 

[17] Nessuno a proprio disdoro mentisce; sì bene, invece, per averne onore. Più manifesta è la credibilità in coloro che a proprio danno confessano, che in coloro che a proprio vantaggio negano. 

[18] In fine codeste testimonianze dei vostri dei sogliono creare dei Cristiani; il più spesso credendo ad essi, crediamo in Cristo Signore. Essi la fede accendono nelle nostre Scritture, essi la fiducia in quello che speriamo costruiscono. 

[19] Voi li onorate a quanto mi consta, anche col sangue dei Cristiani. Non vorrebbero, dunque, perdere voi tanto utili, tanto servizievoli verso di essi - non fosse altro, per non essere un giorno messi in fuga da voi divenuti Cristiani -, se ad essi, davanti a un Cristiano che vuole provare a voi la verità, mentire fosse lecito.

CAPO 24 -- Non dunque meritano i Cristiani di essere accusati di lesa religione per non adorare dei demoni. Inoltre è ingiusto negare ai Cristiani quella libertà religiosa, che è concessa a tutti i popoli.

[1] Tutta codesta confessione di quei demoni, con cui di essere dei negano e con cui rispondono non esservi altro dio tranne quell'unico, cui noi serviamo, è sufficientemente idonea a respingere l'accusa di lesa religione, specialmente romana. E invero, se non esistono per certo dei, nemmeno esiste per certo una religione; se una religione non esiste, perché non esistono dei, per certo nemmeno noi, per certo, rei siamo di lesa religione. 

[2] Per contro, invece, su di voi la rampogna rimbalzerà, che, di culto la menzogna onorando, e la vera religione del vero Dio non solo trascurando, ma per di più impugnando, commettete contro la verità un delitto di vera irreligiosità. 

[3] Orbene, ammesso che risultasse essere quelli dei, non concederete, in base all'opinione comune, esservi un dio più alto e potente, come dire un dio principe dell'universo, di assoluta maestà? E invero così anche molti la divinità stabiliscono, da volere che l'impero e la dominazione somma presso uno solo si trovi, e i suoi uffici presso molti. Così Platone un Giove grande nel cielo descrive, da un esercito accompagnato di dei, e, in pari tempo, di demoni: 

[4] doversi perciò venerare del pari anche i suoi procuratori e prefetti e governatori. E tuttavia qual colpa commette chi l'opera sua, in cui spera, indirizza a guadagnarsi piuttosto il favore del Cesare, e l'appellativo di dio, come quello di imperatore, ad altri non attribuisce che a chi tiene il primo posto, giudicandosi delitto capitale altri, tranne Cesare, chiamare tale e obbedirgli come tale? 

[5] Uno onori Dio, un altro Giove; uno le mani supplici verso il cielo tenda, altri verso l'ara della Fede; uno, se credete, conti, pregando, le nuvole, un altro le travi del soffitto; uno al proprio Dio voti l'anima propria, altri quella di un caprone. 

[6] Badate, infatti, che non concorra anche questo al delitto di irreligiosità, togliere la libertà di religione e la scelta interdire della divinità, così che non mi sia permesso onorare chi voglio, ma sia costretto a onorare chi non voglio. Nessuno vorrà essere onorato da chi non vuole farlo, nemmeno un uomo. 

[7] E per vero agli Egiziani è data la facoltà di praticare una così vana superstizione, col divinizzare uccelli e bestie e condannare nel capo chi qualcuno di questi dei abbia ucciso. Inoltre ogni provincia e città ha un suo dio, come la Siria Astarte, l'Arabia Dusare, il Norico Beleno, l'Africa Celeste, la Mauritania i suoi principi. 

[8] Ho nominato, credo, province romane, né tuttavia sono romani i loro dei; ché non sono in Roma onorati più che non siano quelli, che anche attraverso l'Italia stessa hanno il loro riconoscimento per un culto municipale: Deluentino fra quei di Cassino, Visidiano fra quei di Narni, Ancaria fra quelli di Ascoli, Norzia fra quelli di Volsinio, Valenzia fra quelli di Ocricoli, Ostia fra quelli di Sutri, tra i Falisci Giunone, che in onore del padre Curis anche ne prese l'appellativo. 

[9] Invece a noi soli di professare è impedito una religione propria. Offendiamo i Romani e non siamo ritenuti Romani, noi che una divinità non propria dei Romani onoriamo. 

[10] Per fortuna che c'è un Dio di tutti, a cui tutti, si voglia o non si voglia, apparteniamo. Ma tra voi onorare di culto è lecito qualunque cosa, tranne il Dio vero: quasi che questo non sia piuttosto il Dio di tutti, a cui tutti apparteniamo.

CAPO 25 -- Non all'opera degli dei è debitrice Roma della sua grandezza, ché l'origine di quelli è posteriore alla origine di Roma. La quale, inoltre, distrusse le città, dove vigeva il culto di quelli.

[1] Ma abbastanza prove della falsa e della vera divinità sembrami avere addotto, dimostrando come le prove non solo su ragionamenti si fondino, né solo su argomenti, ma anche su testimonianze di quelli stessi, che ritenete dei; talché di ritornare non c'è bisogno più sopra questa questione. 

[2] Ma poiché interviene la menzione particolarmente della gente romana, non tralascerò la discussione provocata dalla presunzione di coloro, che affermano i Romani per merito della loro religiosità diligentissima essere tanto in alto saliti, da occupare il mondo; ed essere tanto vero che gli dei esistono, che più degli altri prosperano coloro, che più degli altri sono verso di essi riguardosi. 

[3] Già: codesta ricompensa è stata alla gente romana per gratitudine pagata dagli dei romani! è stato Sterculo e Mutuno e Larentina ad estendere l'Impero! Ché non vorrei credere che degli dei forestieri abbiano voluto che codesto a una gente straniera capitasse, piuttosto che alla propria; e che il patrio suolo, in cui sono nati, cresciuti, nobilitati e sepolti abbiano ceduto a gente d'oltremare. 

[4] Se la veda Cibele, se alla città romana si è affezionata, in ricordo della gente troiana, da essa protetta contro le armi degli Achei, in quanto, si capisce, del suo paese: voglio dire, se provvide a passare dalla parte dei vendicatori, cui sapeva che avrebbero la Grecia soggiogato, debellatrice della Frigia. 

[5] Essa, dunque, trasportata nell'urbe, una grande prova della sua maestà anche ai nostri giorni rivelò: quando, essendo stato Marco Aurelio strappato allo Stato a Sirmio il 17 marzo, quell'archigallo veneratissimo il 24 dello stesso mese, in cui di sangue impuro faceva libagioni, incidendosi anche le braccia, i soliti ordini di pregare ugualmente diede per la salute dell'imperatore Marco, già morto. 

[6] O messi tardi, o dispacci sonnolenti, per cui colpa Cibele la morte dell'imperatore prima non conobbe, per impedire che i Cristiani di una tale dea ridessero! 

[7] Ma nemmeno Giove avrebbe dovuto senz'altro permettere che la sua Creta dei fasci romani il colpo subisse, dimenticando quell'antro dell'Ida e i bronzi dei Coribanti e quel dolcissimo odore colà della sua nutrice! Non avrebbe egli dovuto preferire quel suo sepolcro a tutto il Campidoglio, affinché sul mondo quella terra piuttosto dominasse, che le ceneri coperse di Giove? 

[8] Avrebbe mai potuto Giunone volere che distrutta fosse la città punica, da lei amata e preposta a Samo, proprio dal popolo degli Eneadi?. Che io sappia, " Là erano le sue armi. Là il suo cocchio: che qui l'impero fosse sopra le genti, Se i fati lo permettessero, già fin d'allora essa tendeva e si sforzava ". Quella povera sposa e sorella di Giove forza non ebbe contro i destini. è vero: Giove stesso sottostà al fato. - 

[9] Ma tuttavia i Romani non attribuirono ai fati, che loro consegnarono Cartagine contro la decisione e i desideri di Giunone, tanto onore, quanto a quella prostitutissima meretrice di Larentina. 

[10] è sicuro che parecchi dei vostri dei furono re. Orbene, se il potere possiedono di conferire un regno, quando regnarono essi, da chi quel beneficio ricevettero? Chi Saturno e Giove avevano venerato? Uno Sterculo, penso. Sennonché questa divinità, insieme con le relative formule di preghiere, venne in Roma più tardi. 

[11] Ma anche se alcuni non furono re, tuttavia erano sotto il regno di altri non ancora loro adoratori, dapoiché non ancora dei erano essi ritenuti. Dunque ad altri si appartiene concedere il regno, giacché molto prima si regnava che di questi dei si scolpissero le immagini. 

[12] Ma quanto vano non è mai la grandezza della gente romana attribuire al merito della religiosità, dal momento che dopo la costituzione dell'impero - o meglio tuttora del regno - si sviluppò la religione! Infatti, sebbene da Numa la mania delle pratiche superstiziose sia stata concepita, tuttavia il culto tra i Romani non ancora di simulacri o di templi risultava. 

[13] Religione frugale e riti poveri e nessun Campidoglio dagli edifici in gara di toccare il cielo; ma altari casuali, fatti di zolle, e vasi ancora di Samo e un fumo sottile: in nessun luogo la persona stessa del dio. Non ancora infatti a quel tempo ingegni di Grecia e di Toscana avevano l'urbe inondata con la fabrica di loro simulacri. Perciò i Romani non furono religiosi prima che grandi; perciò non per questo grandi, perché religiosi. 

[14] Anzi come mai grandi per la loro religiosità essi, cui per la loro irreligiosità derivò la grandezza? Se non m'inganno, infatti, ogni regno o impero con le guerre si conquista e con le vittorie si estende. D'altra parte guerre e vittorie di città prese e abbattute per lo più risultano. Codesta faccenda senza offesa degli dei non torna: le stesse le distruzioni di mura e di templi, pari di cittadini e di sacerdoti le stragi, e non dissimili delle ricchezze sacre e profane le rapine. 

[15] Pertanto tanti i sacrilegi dei Romani, quanti i trofei; tanti i trionfi sopra gli dei, quanti sopra i popoli; tante le prede, quanti i simulacri, che tuttora rimangono, degli dei tratti in prigionia. 

[16] Orbene, tollerano di essere dai loro nemici adorati, anzi un impero senza termine concedono a coloro, di cui le offese, più che le adulazioni, avrebbero dovuto rimunerare? Vero è che esseri, i quali nulla sentono, altrettanto impunemente offendere si lasciano, quanto inutilmente adorare. 

[17] Certo non si può convenientemente prestar fede che appaiano essere per merito di loro religiosità cresciuti coloro, che, come abbiamo esposto, offendendo la religione crebbero o crescendo la offesero. Anche quei popoli, i cui regni nel complesso dell'impero romano confluirono, quando questi regni perdettero, senza instituzioni religiose non erano.

CAPO 26 -- Chi i regni dispensa è Dio, che fu prima di tutti i tempi e alla cui volontd tutto è sottoposto.

[1] Vedete dunque se i regni non dispensi Colui, a cui si appartiene anche il mondo, sul quale regna, e l'uomo stesso, che regna; se non abbia nei tempi le successioni delle dominazioni ordinato nel mondo Colui, che prima di ogni tempo fu, e il mondo, quale corpo fatto di tempi, creò; se non sia Colui, che le città inalza o deprime, sotto il quale si trovò un tempo, senza città, il genere umano. 

[2] Perché vivete nell'errore? La Roma delle selve prima viene di alcuni suoi dei; prima regnò che costruisse tanta ampiezza di Campidoglio. Avevano i Babilonesi regnato prima che ci fossero i pontefici, e i Medi prima che ci fossero i quindecemviri; e gli Egiziani, prima che ci fossero i Salii, e gli Assiri, prima che ci fossero i Luperci, e le Amazoni, prima che ci fossero le vergini Vestali. 

[3] In fine, se sono le religioni romane che dànno i regni, mai per l'addietro non avrebbe regnato la Giudea, di codeste divinità comuni sprezzatrice; la Giudea, il cui Dio, anche, di vittime e il tempio di doni e il popolo di patti voi Romani avete per qualche tempo onorato: su la quale mai dominato non avreste, se, da ultimo, colpevole davanti a Dio resa non si fosse, mettendosi contro Cristo.

CAPO 27 -- I Cristiani potrebbero fingere di prestarsi ai riti pagani. Non lo fanno perché non vogliono rinnegare nemmeno apparentemente la loro fede; e sacrificandosi per essa riportano sul potere demoniaco la vittoria più splendida.

[1] Ma basti codesto contro l'accusa intentataci di lesa divinità, per difenderci dalla parvenza di offendere una divinità, che abbiamo dimostrato non esistere. Perciò invitati a sacrificare, ci rifiutiamo per serbar fede alla nostra coscienza, in base alla quale con sicurezza sappiamo a chi codesti servizi arrivino sotto le immagini esposte e sotto nomi di uomini deificati. 

[2] Ma alcuni reputano pazzia il fatto che, potendo per il momento sacrificare e andarcene illesi, il nostro proposito nell'animo conservando, l'ostinazione preferiamo alla salvezza. 

[3] Voi, è chiaro, un consiglio ci date, con cui illudervi; ma noi conosciamo onde codesti inviti provengano, chi tutto codesto diriga: e come, ora con l'astuzia del persuadere, ora con la durezza dell'incrudelire, lavori per abbattere la nostra costanza. 

[4] è chiaro: è quello spirito di costituzione demoniaca e, a un tempo, angelica, che, divenuto nostro nemico per la sua rivolta, e invidioso per la grazia di Dio a noi concessa, contro di noi lotta servendosi delle vostre menti, con occulta inspirazione regolandole e subornandole ad ogni perversità di giudizio e iniquità di sevizie, come da principio abbiamo premesso. 

[5] E invero, sebbene sia a noi sottoposta totalmente la potenza dei demoni, voglio dire di tali spiriti, tuttavia, come servi tristi, talvolta alla paura mescono la ribellione e di offendere bramano quelli, che in altri momenti temono. Ché anche la paura inspira l'odio. 

[6] Senza dire che la loro condizione disperata, in seguito alla condanna in precedenza pronunciata, considera un conforto quello di trarre frattanto un profitto maligno dall'indugio del castigo. E tuttavia, messi alle strette, soggiogare si lasciano e soggiacciono alla loro condizione: e quelli, che da lontano combattono, da vicino supplicano. 

[7] Pertanto, quando a mo' di quello che negli ergastoli ribellantisi avviene o nelle carceri o nelle miniere o in stati di schiavitù penale del genere, irrompono contro di noi, in cui potere si trovano, pur sicuri di essere impari e perciò maggiormente disperati, di mala voglia resistiamo loro come uguali, e per forza lottiamo persistendo in quello che essi attaccano; ma di essi mai maggiormente trionfiamo, come quando per la nostra fermezza nella fede veniamo condannati.

CAPO 28 -- Il culto prestato per costrizione, quale si esige dai Cristiani, è un non senso.

[1] Ma poiché sembrerebbe facilmente ingiusto che uomini liberi venissero costretti a sacrificare contro lor voglia - ché anche in altri casi si prescrive un animo volonteroso per compiere un rito divino: certo sarebbe ritenuto sciocco, se uno costringesse un altro a onorare quegli dei, che il dovere avrebbe di placare spontaneamente nel proprio interesse; se non vuole, com'è naturale, sentirsi dire in nome della libertà: 'Non voglio che Giove mi sia propizio; tu chi sei? Giano mi si rivolga, adirato, con la faccia che vuole: che hai tu da fare con me?' -, è certo che per influsso dei medesimi spiriti voi siete indotti a costringerci a sacrificare per la salute dell'imperatore; ed è stata a voi imposta la necessità di costringerci, come a noi l'obligo di affrontare la prova. 

[2] Eccoci dunque alla seconda imputazione arrivati, quella di offendere una maestà più augusta, dacché con maggiore paura e più astuto timore rispettosi vi mostrate verso Cesare, che verso Giove stesso dell'Olimpo. E giustamente, se siete in grado di capire. Chi, infatti, qualsiasi fra i vivi, non è a un morto preferibile? 

[3] Ma voi nemmeno questo in seguito a un ragionamento fate: sì, piuttosto, per un riguardo a un potere di efficacia immediata. Così anche in questo vi fate cogliere irreligiosi verso i vostri dei, dal momento che un timore maggiore a un padrone umano dedicate. In somma tra voi più facilmente per tutti quanti gli dei si spergiura, che per il solo Genio di Cesare.

CAPO 29 -- Gli dei non sono in grado di proteggere l'imperatore. Sono essi, invece, e il loro culto alle dipendenze dell'imperatore.

[1] Risulti, dunque, prima, se questi dei, cui si fa sacrificio, di largire siano in grado la salute all'imperatore o a qualsiasi uomo; e poi sotto accusa metteteci di lesa maestà; se vuoi angeli, vuoi demoni, sostanze spirituali pessime, un qualche beneficio operano; se degli esseri perduti conservano, se degli esseri dannati liberano, se, in fine, per quanto siete consci, dei morti proteggono dei vivi. 

[2] E invero non v'è dubbio che le loro statue e immagini e templi anzi tutto gli dei proteggerebbero, la cui incolumità, penso, garantiscono invece i soldati di Cesare con le loro guardie. Se non erro, poi, quegli stessi materiali dalle miniere di Cesare provengono, e i templi per volontà di Cesare interamente sussistono. 

[3] In fine molti dei Cesare adirato ebbero: fa al mio proposito anche se l'hanno favorevole, quando usa ad essi qualche liberalità o privilegio. Così coloro che in potere sono di Cesare, al quale anche interamente appartengono, come avranno la salute di Cesare in loro potere, così da apparire di poterla garantire, mentre, invece, essi più facilmente da Cesare la ottengono? 

[4] Per questo, dunque, noi verso la maestà degl'imperatori colpevoli ci rendiamo, perché non li mettiamo al di sotto delle cose loro, perché non ci prendiamo gioco dell'obligo di pensare alla loro salute, che non crediamo si trovi in mani saldate col piombo?

[5] Voi, invece, irreligiosi siete, che quella salute cercate dove non è, domandate a chi darla non la può, da parte lasciando Colui, in cui potere quella si trova: e per di più coloro perseguitate, che la sanno domandare, che in grado sono anche d'impetrarla, mentre sanno domandarla.

CAPO 30 -- I Cristiani soli pregano davvero per la salute dell'imperatore, in quanto lo collocano al di sotto di Dio, e Dio pregano nel modo come va pregato.

[1] Noi, infatti, per la salute degli imperatori il Dio eterno invochiamo, il Dio vero, il Dio vivo che anche gli imperatori stessi a sè propizio preferiscono piuttosto che tutti gli altri dei. Sanno essi chi l'impero ha dato loro; sanno, in quanto uomini, chi loro ha dato anche la vita; sentono che esso è il solo Dio, nella cui potestà, soltanto, essi si trovano, a partire dal quale sono essi secondi, dopo il quale primi: davanti a tutti e sopra tutti gli dei. E come no? dal momento che sono sopra tutti gli uomini, i quali in verità vivono e sono sopra i morti. 

[2] Ripensano fino a che punto le forze valgano del loro impero, e così comprendono Dio; per opera di Colui conoscono essi di valere, contro il quale valere essi non possono. O in somma, si provi l'imperatore a debellare il cielo, a condurre nel suo trionfo prigioniero il cielo, a mandare sue guardie al cielo, a imporre tributi al cielo: non può. 

[3] Perciò è egli grande, perché al cielo sottostà; a Colui infatti appartiene egli, a cui il cielo e ogni creatura appartiene. Da Colui è egli imperatore, onde anche uomo, prima che imperatore; di là a lui il potere, onde anche la vita. 

[4] Colà alzando gli occhi noi Cristiani, con le mani distese, perché innocenti, col capo nudo, perché senza rossore, in fine senza suggeritore, perché preghiamo di cuore, a pregare ci troviamo sempre per tutti gli imperatori vita ad essi lunga, impero tranquillo, casa sicura, eserciti forti, senato fedele, popolo onesto, mondo tranquillo: tutto quanto nei voti rientra di un uomo e di un Cesare. 

[5] Codesto pregarlo non posso da un altro, se non da chi so di poterlo ottenere: poiché egli è Colui che solo concede, ed io sono colui, cui spetta l'ottenere, il suo servo, che solo lo rispetto, che per la sua disciplina mi faccio uccidere, che un'ostia opima gli offro e di maggior valore, quella che egli ordinò, vale a dire un'orazione uscente da carne pudica, da anima innocente, da spirito santo; 

[6] non grani d'incenso del valore di un asse, lacrime di una pianta arabica, né due gocce di vino, né sangue di bove avariato, bramoso di morire, e, dopo tutte le sozzure, anche una coscienza sporca: talché, quando tra voi da sacerdoti viziosissimi le vittime si esaminano per l'approvazione, mi meraviglio come mai i precordi delle vittime si esaminino, piuttosto che quelli degli stessi sacrificanti. 

[7] Così, dunque, con le mani verso Dio distese, ci lacerino le unghie, ci sospendano le croci, ci lambiscano le fiamme, ci tronchino le gole le spade, ci balzino sopra le belve: ad ogni supplizio è pronto l'atteggiamento stesso del Cristiano orante. Fatelo pure, o buoni governatori, strappate un'anima intesa a supplicare Dio per l'imperatore. Il crimine sarà là, dov'è la verità e la devozione a Dio!

CAPO 31 -- I Cristiani Pregano, come n'hanno l'obligo, per la salute degl'imperatori.

[1] Ma, si dice, ora noi abbiamo adulato l'imperatore e mentito nei voti che abbiamo espresso, è chiaro, per sfuggire alla violenza. - Ci giova assai questo inganno! Difatti di provare ci consentite ogni nostra asserzione! Or dunque, tu che hai creduto che noi della salute dei Cesari non ci si curi punto, da' un'occhiata alle parole di Dio, alle nostre Scritture, che né noi nascondiamo e molti casi in mano di estranei fanno giungere. 

[2] Apprendete da queste che a noi, per sovrabbondanza di bontà, è stato ordinato di pregare Dio anche per i nostri nemici e implorare benefici per i nostri persecutori. Or quali più nemici e persecutori dei Cristiani di coloro, la cui maestà veniamo accusati di violare? 

[3] Ma anche si fanno con chiarezza i nomi: 'pregate - è detto - per i re e i principi e i potenti affinché tutto sia per voi tranquillo'. E invero, quando l'Impero delle scosse subisce, anche le altre membra dell'Impero tutte vengono scosse, e indubbiamente noi pure, sebbene fuori dei turbamenti, ci troviamo ad aver qualche parte nella disgrazia.

CAPO 32 -- Anche per un'altra ragione noi preghiamo per la salute degl'imperatori: perché Iddio prolunghi la durata del loro impero, differendo la fine del mondo. Non giuriamo per il loro Genio, perché i Geni sono dei demoni. 

[1] Ma c'è per noi anche un'altra necessità maggiore di pregare per gl'imperatori, anzi per la stabilità di tutto l'Impero e per la potenza romana, noi che sappiamo che col prolungamento dell'Impero romano viene ritardata la più grande catastrofe che stia sopra tutto il mondo, anzi la fine stessa del mondo minacciante orrende sofferenze. Pertanto noi non vogliamo farne l'esperienza: e mentre che questa fine sia differita preghiamo, alla durata del romano Impero gioviamo. 

[2] Ma giuriamo anche, se non per il Genio dei Cesari, per la loro salute, che è più augusta di tutti i Geni. Non sapete che i Geni si chiamano demoni e, con diminutivo di qui derivato, demonii? Noi negli imperatori il giudizio di Dio rispettiamo, che li ha messi a capo delle genti. 

[3] Noi sappiamo che in essi c'è quello che Dio ha voluto: per cui noi salvo vogliamo quello che Dio ha voluto e in conto lo teniano di un grande giuramento. Del resto i demoni, vale a dire i Geni, noi sogliamo scongiurarli, per cacciarli dagli uomini, non giurare sul loro nome, per conferire loro l'onore dovuto alla divinità.

CAPO 33 -- La maniera più efficace per ottenere la protezione di Dio su l'imperatore, è di collocarlo al suo giusto posto: il primo ma dopo Dio.

[1] Ma perché a parlare mi dilungo io più a lungo della religione e della pietà dei Cristiani verso l'imperatore, che necessariamente rispettiamo come colui che il Signor nostro ha eletto, talché dire giustamente potrei: 'Cesare è maggiormente nostro, perché dal Dio nostro costituito?'. 

[2] Perciò, come mio, maggiormente per la sua salute io mi adopero, non solo perché a colui la domando che la può accordare, o perché io, che gliela domando, tale sono da poterla impetrare: ma anche perché la maestà di Cesare al di sotto di quella di Dio riducendo, più efficacemente lo raccomando a Dio, a cui solo lo sottometto. Lo sottometto, infatti, a uno, a cui non lo uguaglio. 

[3] Ché io non chiamerò Dio l'imperatore, sia perché mentire non so, sia perché ridere di lui non oso, sia perché nemmeno lui essere chiamato dio vorrà. Se è un uomo, è nell'interesse dell'uomo cedere a Dio, di essere chiamato imperatore si tenga contento: grande è anche questo nome, che da Dio viene concesso. Nega che egli sia imperatore chi lo dice dio: se non è uomo, non è imperatore. 

[4] Che egli è un uomo, ricordato gli viene anche quando trionfa su quel cocchio altissimo. Gli si ripete, infatti, da tergo: 'Guarda dietro a te. Ricordati che sei un uomo'. E in verità a codesto modo egli gode maggiormente di risplendere di tanta gloria, da rendere necessario che gli si ricordi la sua condizione. Sarebbe egli minore, se in quell'occasione fosse chiamato dio, perché tale secondo verità non sarebbe chiamato. Più grande è chi a non reputarsi un dio viene richiamato.

CAPO 34 -- Più conforme a verità, più onorevole, più gradito torna all'imperatore non chiamarlo dio.

[1] Augusto, il fondatore dell'impero, nemmeno essere chiamato signore voleva. Anche questo, infatti, è un appellativo di Dio. Certo signore chiamerò l'imperatore, ma secondo l'uso comune, ma quando a chiamarlo signore non sono costretto al posto di Dio. Del resto io sono per lui un libero: ché signore mio è uno solo, Dio onnipotente ed eterno, il medesimo che di lui. 

[2] Chi è padre della patria, come n'è signore? Ma anche più gradito torna l'appellativo dedotto dall'affetto, che dal potere. Anche i capi di famiglia padri si chiamano, piuttosto che signori: tanto è lontano l'imperatore dal doversi chiamare Dio, cosa che non potrebbe essere creduta, trattandosi di un'adulazione, non solo turpissima, ma anche dannosa. 

[3] Gli è come se, avendo un imperatore, con questo nome tu chiamassi un altro: non incorrerai in una gravissima e imperdonabile offesa verso colui, che come tale avesti, motivo di timore anche per colui, che con tal nome chiamasti? Sii religioso verso Dio, tu che propizio lo vuoi verso l'imperatore. Cessa di credere dio un altro; e perciò anche di chiamar dio costui, che di Dio ha bisogno. 

[4] Se un adulatore di tal genere non arrossisce per la sua menzogna, chiamando dio un uomo, tema almeno del cattivo augurio. Espressione di cattivo augurio è chiamare dio Cesare prima dell'apoteosi.

CAPO 35 -- Alle solennità in onore dei Cesari non prendono parte i Cristiani, perché si svolgono in forma scostumata e immorale. Del resto assai discutibile è la sincerità e la fedeltà di coloro che vi prendono parte.

[1] Dunque per questo sono i Cristiani nemici pubblici, perché néonori vani, né menzogneri, né sconsiderati agl'imperatori dedicano; perché uomini di una religione vera, anche le solennità di quelli con omaggio interiore celebrano piuttosto che con la sfrenatezza. 

[2] Grande omaggio, si capisce, trarre in pubblico fornelli e divani, banchettare per quartieri, trasfigurare la città dandole l'aspetto di un'osteria, far rapprendere il fango col vino, scorrazzare in bande per abbandonarsi alle ingiurie, alla sfrontatezza, ai divertimenti libidinosi. Così la publica gioia col disonore pubblico si esprime? Ai giorni solenni dei principi si conviene quello che agli altri giorni non si conviene? 

[3] Quelli che la disciplina per riguardo a Cesare osservano, per causa di Cesare la violeranno? E la licenza del mal costume sarà pietà? E l'occasione di abbandonarsi alla lussuria si reputerà religione? 

[4] O noi meritamente degni di condanna! Perché infatti i voti e le dimostrazioni di allegrezza riguardanti i Cesari, casti e sobrii e probi compiamo? Perché in un giorno di allegrezza gli usci con allori non adombriamo, né il giorno con lampade superiamo? è cosa onorevole, quando una solennità publica lo esige, la tua casa rivestire del sembiante di un nuovo lupanare?. 

[5] Tuttavia anche nel campo di questa religione riguardante la seconda maestà, a proposito della quale di un secondo sacrilegio accusati veniamo noi Cristiani, perché insieme con voi le solennità dei Cesari non celebriamo in un modo che né la modestia né la verecondia né la pudicizia permettono di celebrare, alla cui celebrazione vi induce l'occasione di abbandonarvi alle voluttà, più che un giusto motivo: anche, dico, in questo campo provare vorrei la vostra sincerità e verità, se alle volte anche costi non si facciano cogliere come peggiori dei Cristiani coloro, che non vogliono che noi siamo ritenuti Romani, ma nemici dei principi romani. 

[6] Chiamo in causa proprio i Quiriti, proprio la plebe indigena dei sette colli, e domando se vi è un Cesare, cui quella loro lingua romana risparmi. N'è testimonio il Tevere e la scuola dei bestiarii. 

[7] Certo se la natura i petti di una qualche materia diafana ricoperto avesse, in modo da lasciar trasparire l'interno, si troverebbe egli un uomo, i cui precordi non presentassero scolpita la scena di un sempre nuovo Cesare, nell'atto di procedere alla distribuzione del congiario, anche proprio in quell'ora in cui acclamano: 'A te gli anni accresca, dai nostri togliendoli, Giove'?. Queste parole il Cristiano pronunciare non sa, al modo stesso che non sa il desiderio esprimere di un nuovo Cesare. 

[8] 'Ma si tratta del volgo' - dici. - Si, del volgo, tuttavia di Romani: né più accaniti accusatori dei Cristiani vi sono del volgo. Certo gli altri ordini, data la loro posizione elevata, sono religiosi sinceramente: nessun soffio di ostilità dalla parte proprio del senato, dei cavalieri, del campo, del palazzo stesso! 

[9] Onde i Cassii e i Negri e gli Albini? Onde coloro che fra i due laureti assediano Cesare?. Onde coloro che nell'arte della palestra si esercitano, comprimendogli la gola?. Onde coloro che armati nel palazzo irrompono più audaci di tanti Sigerii e Partenii?. Provengono dai Romani, se non m'inganno, vale a dire, dai non cristiani. 

[10] Che anzi costoro tutti, mentre la loro empietà era presso a prorompere, il rito sacro celebravano per la salute dell'imperatore, e per il suo Genio giuravano, altri palesemente, ben altri dentro di sé; e naturalmente ai Cristiani il nome davano di nemici pubblici. 

[11] Ma anche coloro che ora, tutti i giorni, complici o fautori si scoprono di partiti scelerati - raccolta di grappoli superstiti di una vendemmia di parricidi - di che freschissimi e ramosissimi allori gli usci adornavano, di che altissime e lucentissime lampade i vestiboli annuvolavano, con che elegantissimi e sontuosissimi divani lo spazio del foro si dividevano, non per celebrare il pubblico gaudio, ma per apprendere, in occasione di una festività altrui, voti pubblici diretti a sé, e inaugurare l'esempio e l'immagine che era nelle loro speranze, mutando in loro cuore il nome del principe. 

[12] Omaggi dello stesso genere pagano coloro che astrologhi e aruspici e àuguri e maghi consultano su la vita dei Cesari: le quali arti, perché dagli angeli disertori insegnate e da Dio proibite, i Cristiani non adoperano nemmeno quando si tratta di interessi loro. 

[13] Chi poi di scrutare ha bisogno intorno alla conservazione di Cesare, se non colui che qualche cosa contro di essa ha in mente o desidera, o spera e si attende quando essa sia venuta meno? Ché non con la stessa intenzione si fanno consultazioni circa i propri cari e circa i propri signori. Altrimenti sollecita è la preoccupazione del sangue, altrimenti quella della servitù.

CAPO 36 -- La lealtà e l'amore per gl'imperatori non consiste nelle vostre, spesso false, dimostrazioni. Noi amiamo veramente e rispettiamo gl'imperatori: verso di loro abbiamo gli stessi doveri che verso il nostro prossimo.

[1] Se le cose stanno così, cioè, che si scoprono dei nemici che si chiamano Romani, perché si nega che noi, che nemici siamo ritenuti, si sia Romani? Non possiamo essere noi Romani e, al tempo stesso, nemici, dal momento che si scoprono dei nemici, che sono ritenuti Romani?

[2] In verità la pietà e la religione e la fedeltà dovuta agl'imperatori non in codesti ossequi consiste, dei quali anche i nemici possono servirsi per nascondere piuttosto se stessi; ma in quei costumi, con i quali la divinità a noi ordina di manifestarla tanto sinceramente, quanto, com'è necessario, verso tutti. 

[3] Ché codesti tratti di animo affezionato noi non li dobbiamo ai soli imperatori. Nessuna differenza fra le persone facciamo noi nel compiere un buon ufficio, perché lo prestiamo a noi stessi, che non la retribuzione di lode o di ricompensa da un uomo cerchiamo, ma da Dio, che pondera e rimunera la bontà, imparziale. 

[4] Noi siamo per l'imperatore gli stessi che per i nostri prossimi. Ché voler male, far male, dir male, pensar male di chi che sia a noi è ugualmente vietato. Tutto ciò che nei riguardi dell'imperatore non lice, nei riguardi non lice di nessuno; e quello che non lice nei riguardi di nessuno, tanto meno, forse, nei riguardi di colui lice, che grazie a Dio è tanto grande.

CAPO 37 -- Ingiuste sono la persecuzioni contro di noi, su cui nulla avete da riprendere; e di cui avreste ben da temere, se volessimo vendicarci.

[1] Se, come sopra si è detto, l'ordine abbiamo di amare i nemici, chi possiamo odiare? Del pari se, offesi, di rendere il contracambio ci è vietato, per non essere di fatto pari ai nostri offensori, chi possiamo offendere? 

[2] Riconoscetelo infatti voi da codesto. Quante volte infatti contro i Cristiani non infierite, parte per animosità vostra, parte in obbedienza alle leggi! Quante volte, anche, indipendentemente da voi, come fosse un suo diritto, il volgo ostile a colpi di pietra ci assale e con incendi! Con furie proprio da Baccanali nemmeno i Cristiani morti risparmiano, ma dalla requie del sepolcro, dall'asilo, per così dire, della morte, già decomposti, già non più integri li strappano, li fanno a pezzi, li disperdono. 

[3] E tuttavia che avete mai da riprendere sul conto di persone così unite, da ripagare, per ingiurie patite, individui così disposti fino ad affrontare la morte, quando anche sola una notte con pochi focherelli potrebbe la nostra vendetta largamente attuare, se il male con il male ricambiare fosse tra di noi permesso? Ma lunge da noi vendicare una setta divina con fiamme umane, o dolerci di patire per ciò con cui essa è provata. 

[4] Se infatti comportarci volessimo da nemici scoperti, non soltanto da vendicatori occulti, mancherebbe a noi la forza del numero e dei soldati? Già, più numerosi sono Mauri e Marcomanni e i Parti stessi o quante si vogliano genti, contenute tuttavia in un sol luogo, entro propri confini, che un popolo di tutto il mondo! Noi siamo di ieri, e tutto il vostro abbiamo riempito, città, isole, castelli, municipi, borgate, gli accampamenti stessi, tribù, decurie, il Palazzo, il Senato, il foro: solo i templi vi abbiamo lasciato. 

[5] A qual guerra non saremmo stati preparati e pronti, anche se impari per numero di soldati, noi che così volentieri trucidare ci lasciamo, se tra gli appartenenti a questa setta non fosse lecito piuttosto farsi uccidere, che uccidere? 

[6] Avremmo potuto anche solo inermi, senza ribellarci, ma soltanto con la nostra separazione, con l'odiosità del solo allontanamento contro di voi combattere. Se, infatti, noi, così grande numero di uomini, l'avessimo rotta con voi, in qualche angolo lontano del mondo ritirandoci, la perdita di tanti cittadini, quali che siano, avrebbe indubbiamente coperto di rossore voi, dominatori: anzi anche col solo fatto di avervi abbandonati, vi avrebbe puniti. 

[7] Non v'è dubbio: avreste di fronte alla vostra solitudine paventato, di fronte al silenzio delle cose, allo stupore, per così dire, del mondo quasi colto dalla morte; avreste cercato a chi comandare: più nemici che cittadini sarebbero a voi rimasti. 

[8] Ora infatti avete un numero di nemici minore per causa della moltitudine dei Cristiani, quasi tutti cittadini; ma, pur avendo in quasi tutti i Cristiani dei cittadini, nemici del genere umano avete preferito chiamarli, piuttosto che dell'umano errore. 

[9] Chi, inoltre, voi a quei nemici occulti e incessanti devastatori delle vostre menti e della vostra salute strapperebbe, voglio dire dagli assalti dei demoni, che noi scacciamo da voi senza premio, senza compenso? Sarebbe bastato solo questo alla nostra vendetta, che rimaneste quind'innanzi, libero possesso, alla mercè degli spiriti immondi. 

[10] Eppure, senza pensare a compensarci per così grande difesa, noi, gente non solo non molesta a voi, ma anzi necessaria, avete preferito giudicarci nemici, noi, che effettivamente nemici siamo, non tuttavia del genere umano, ma piuttosto dell'errore umano.

CAPO 38 -- I Cristiani non costituiscono una setta pericolosa all'ordine pubblico. E se si astengono dai vostri spettacoli, lo fanno perché li ritengono immorali.

[1] Pertanto nemmeno - provvedimento un po' meno severo - si dovrebbe considerarla tra le fazioni vietate codesta setta, da cui nulla si commette di quello che da parte delle fazioni vietate temere si suole. 

[2] Se non m'inganno, infatti, la causa del divieto delle fazioni dalla preoccupazione risulta dell'ordine pubblico, per impedire che la città in partiti si scindesse, cosa che facilmente avrebbe i comizi turbato, le adunanze, le curie, le concioni, gli spettacoli anche, sotto la spinta di passioni contrastanti, quando già gli uomini a trarre un guadagno avevano cominciato dall'uso della loro violenza, vendendosi e facendosi pagare. 

[3] Ma per noi, cui ogni brama di onori e di gloria lascia freddi, non v'è di conventicole necessità alcuna; e nulla è più alieno che la cosa publica. Una sola republica di tutti noi riconosciamo, l'universo. 

[4] Del pari dai vostri spettacoli ci asteniamo, in quanto ci asteniamo dalle loro origini, che derivate sappiamo da superstizioni, mentre estranei siamo anche ai fatti stessi che vi si compiono. Nulla abbiamo che dire, vedere, udire con la follia del circo, con l'oscenità del teatro, con l'atrocità dell'arena, con la futilità del xisto. 

[5] In che vi offendiamo, se piaceri diversi presumiamo? Se saperne non vogliamo di divertirci, il danno è, se mai, nostro, non vostro. 'Ma noi riproviamo quello che piace a voi'. - Nemmeno a voi piacciono le cose nostre. Ma fu ben lecito agli Epicurei di stabilire una voluttà verace, vale a dire la tranquillità dello spirito.

CAPO 39 -- Di che genere sono le riunioni e le attivittà dei Cristiani: preghiere, lettura della Santa Scrittura, giudizi, contribuzione volontaria per aiutare i bisognosi, atti di amore fraterno, pasti innocenti in comune.

[1] Ed ora esporrò io stesso l'attività della fazione cristiana, affinché, dopo averne confutato quella trista, ne dimostri quella buona. Siamo una corporazione, che ha per base la consapevolezza di una religione comune e l'unità di una disciplina comune e il patto di una speranza comune. 

[2] Ci raccogliamo in adunanze e riunioni, per circondare, pregando, Dio con le suppliche, come con un manipolo serrato. Questa violenza è a Dio gradita. Preghiamo anche per gl'imperatori, per i loro ministri e magistrati, per la stabilità del mondo, per la tranquillità della vita, per la dilazione della fine. 

[3] Ci raccogliamo per la lettura della Scrittura divina, se qualche caratteristica del tempo presente a preannunziare c'induce un fatto o a riconoscerne il compimento. Almeno con le parole sante la fede nutriamo, la speranza confortiamo, la fiducia consolidiamo, serriamo la disciplina non foss'altro inculcandone i precetti. Ivi stesso anche hanno luogo esortazioni, correzioni e punizioni in nome di Dio. 

[4] E invero vi si giudica con grande ponderatezza, come tra persone che di trovarsi sono certe al cospetto di Dio; ed è una ben grave anticipazione del giudizio futuro, se uno colpevole siasi reso al punto da essere dalla comunione della preghiera allontanato e delle riunioni e di ogni santa relazione. Presiedono i più anziani, tutti approvati, che codesta carica non pagando hanno conseguito, ma testimonianza rendendo: ché nessuna cosa di Dio costa danaro. 

[5] Anche se c'è una specie di cassa, il danaro che vi si raccoglie non da contributi onorari deriva, quasi prezzo d'acquisto della carica religiosa. Ognuno versa una monetuzza in un giorno del mese, o quando vuole e soltanto se vuole e soltanto se può. Ché nessuno vi è costretto, ma il contributo è spontaneo. Sono questi, per così dire, i depositi della pietà. 

[6] E invero non per provvedere a banchetti vi si attinge, né a bicchierate, né a gozzoviglie oltre il desiderio spinte: ma per nutrire i poveri e seppellirli, per nutrire i fanciulli e le fanciulle rimasti privi di mezzi e di genitori, anche i servitori vecchi e, del pari, i naufraghi e quelli che, nelle miniere condannati o nelle isole o nelle prigioni soltanto per appartenere alla setta di Dio, pupilli diventano della religione da loro confessata. 

[7] Ma è particolarmente la pratica di una dilezione di tal genere che fra certa gente il noto biasimo ci procura. 'Vedi - dicono - come si amano tra loro (essi, infatti, fra loro si odiano), e come sono pronti a morire l'uno per l'altro (essi, infatti, ad ammazzarsi tra loro sono più pronti)'. 

[8] Ma anche per il fatto che ci chiamiamo fratelli, non per altro motivo, penso, perdono la testa, se non perché tra di essi ogni termine di consanguineità, quanto all'affetto è una finzione. Inoltre anche fratelli vostri siamo noi, per legge di natura, unica madre, se pur voi siete troppo poco uomini, perché tristi fratelli. 

[9] Ma quanto più degnamente fratelli si dicono e si ritengono coloro, che un unico Dio hanno come padre riconosciuto, che a un unico spirito di santità si sono abbeverati, che da un unico grembo della medesima ignoranza, con un pauroso stupore, a un'unica luce emersero di verità. 

[10] Ma forse per questo siamo fratelli meno legittimi ritenuti, perché nessuna tragedia su l'argomento della nostra fraternità declama, o perché fratelli siamo quanto alle sostanze familiari, che tra di voi di solito i fratelli dividono. 

[11] Perciò noi, che siamo nell'animo e nella vita uniti, a mettere in comune le sostanze non esitiamo. Tutto è tra noi indiviso, tranne le mogli. 

[12] In codesto punto sciogliamo la comunanza, nel quale soltanto gli altri uomini la comunanza praticano, essi che, non solo le mogli degli amici si appropriano, ma anche le proprie con tutta sopportazione a disposizione di quelli mettono: in conformità, credo, a quella disciplina dei maggiori e de' più grandi filosofi, del greco Socrate e del romano Catone, che le proprie mogli in comune misero con gli amici, le quali avevano essi sposate per mettere al mondo figli anche in casa altrui. 

[13] E forse non contro il volere di queste. Che preoccupazione, infatti, potevano esse avere della loro castità, della quale i mariti avevano così facilmente fatto dono ad altri? O esempio di attica saggezza, di romana gravità! Un filosofo e un censore diventano mezzani. 

[14] Qual meraviglia, pertanto, se un tanto amore col mangiare insieme si esprime? Ché anche i nostri poveri pranzi, oltre che per infami delitti, voi anche per le loro prodigalità condannate. Si capisce: a noi si riferisce il detto di Diogene: "I Megaresi banchettano come se dovessero morir domani, e invece costruiscono, come se non dovessero morire mai ". Sennonché ognuno più facilmente la pagliuzza vede nell'occhio altrui, che la trave nel proprio. 

[15] In seguito ai rutti di tante tribù e curie e decurie l'aria si corrompe; quando i Salii devono un pranzo celebrare, sarà necessario un creditore; le spese per le decime di Ercole e i relativi banchetti calcolarle dovranno dei computisti; per le Apaturie, le feste dionisiache, i misteri attici una leva s'indice di cuochi; al fumo del banchetto in onore di Serapide dovranno essere messi in allarme i pompieri: solo intorno al pasto dei Cristiani si trova a ridire. 

[16] Il nostro pranzo rende ragione di sè dal suo nome: si chiama con un termine, che in greco vale 'amore'. Per quanto grandi siano le spese che costa, è guadagno fare una spesa in nome della pietà, ché tutti i bisognosi aiutiamo con questo ristoro; non al modo con cui tra voi i parasiti alla gloria aspirano di asservire la loro libertà, a condizione di rimpinzarsi la pancia sotto gl'insulti; ma al modo che davanti a Dio è maggiore il riguardo per gli umili. 

[17] Se onesto è del banchetto il motivo, dal motivo il rimanente ordine apprezzate che lo disciplina. Derivando da un dovere religioso, nessuna bassezza ammette, nessuna intemperanza. Non ci si siede a tavola prima di pregustare una preghiera a Dio; si mangia quanto la fame ne cape; si beve quanto a persona sobria è utile. 

[18] Così ci si sazia, come persone che di dover adorare Dio si ricordano anche durante la notte; così si conversa, come chi sa che il Signore le ascolta. Dopo data l'acqua alle mani e accesi i lumi, secondo che uno si sente di farlo, a cantare qualche cosa in onore di Dio è invitato nel mezzo, attingendola dalla Scrittura santa o dal proprio ingegno: di qui in qual misura ha bevuto si ha la prova. Ugualmente una preghiera i convitati discioglie. 

[19] Di là ci si diparte non per costituire caterve di assassini, né schiere di vagabondi, né per abbandonarci alla sfrenatezza, ma per continuare la stessa cura della modestia e della pudicizia, come quelli che hanno pranzato non tanto un pranzo, quanto un insegnamento. Codesta adunata di Cristiani è certo meritamente illecita, se è pari alle cose illecite; meritamente da condannarsi, se ci si lagna di essa allo stesso titolo che delle conventicole. 

[20] Per la rovina di chi ci aduniamo qualche volta? Adunati quello stesso siamo che separati; tutti insieme quello stesso che singoli, nessuno offendendo, nessuno contristando. Quando persone si adunano oneste, buone, quando persone si riuniscono pie, caste, non è il caso di parlare di fazione, ma di assemblea.

CAPO 40 -- Non i Cristiani sono la causa delle disgrazie e dei disastri che incolgono i Pagani. Quanti di questi non si contano prima ancora che i Cristiani esistessero! Se mai, ora i disastri sono più rari e meno gravi, in quanto i Cristiani il vero Dio pregano e presso lui intercedono, mentre voi fate ricorso agli dei falsi.

[1] Per contro a quelli si deve attribuire il nome di fazione, i quali, per suscitare l'odio contro persone buone e oneste cospirano, che contro il sangue d'innocenti gridano, a giustificazione del loro odio pretestando, invero, anche quella futile opinione, per cui stimano che per ogni publica calamità, per ogni disgrazia popolare siano in causa i Cristiani. 

[2] Se il Tevere fino alle mura sale, se il Nilo fino ai campi non cresce, se il cielo si arresta, se la terra si scuote, se c'è la fame, la peste, subito 'I Cristiani al leone!' - si grida. Tanta gente a un solo leone? 

[3] Io vi domando: prima di Tiberio, vale a dire, prima della venuta di Cristo, quante calamità le città del mondo non devastarono! Si legge che le isole di Iera, Anafe e Delo e Rodi e Cos scomparvero negli abissi con molte migliaia di uomini. 

[4] Anche Platone ricorda che una terra, maggiore dell'Asia e dell'Africa, fu dal mare Atlantico strappata. Ma anche il mare di Corinto fu da un terremoto assorbito; e la violenza delle onde la Lucania distaccò e rimosse col nome di Sicilia. Tutto ciò accadere senza danno degli abitanti certo non poté. 

[5] Ma dov'erano allora, non dirò i Cristiani, dei vostri dei spregiatori, ma gli stessi vostri dei, quando il diluvio il mondo tutto distrusse, oppure, come credette Platone, soltanto il piano?. 

[6] E invero, che quegli dei al disastro del diluvio posteriori siano, le città stesse lo attestano, in cui nacquero e morirono, quelle anche ch'essi fondarono; né infatti altrimenti sarebbero fino al dì d'oggi durate, se esse pure non fossero a quel disastro posteriori. 

[7] Non ancora la Palestina aveva lo sciame dei Giudei accolto, usciti dall'Egitto; né ancora si era colà il popolo stanziato, che fu della setta cristiana l'origine, quando le regioni a lui confinanti, Sodoma e Gomorra, il fuoco distrusse. Tuttora quella terra di bruciato odora; e se pur colà qualche frutto di piante appare, è un tentativo che non va oltre gli occhi: toccato, si riduce in cenere. 

[8] Ma nemmeno la Toscana, allora, e la Campania dei Cristiani si lagnavano, quando Volsinio il fuoco caduto dal cielo, Pompei quello disceso dal proprio monte ricoperse. Nessuno ancora in Roma il Dio vero adorava, quando Annibale a Canne la sua strage misurava, col moggio gli anelli romani raccogliendo. 

[9] Tutti gli dei vostri da tutti erano adorati, quando il Campidoglio stesso i Senoni avevano occupato. Per fortuna che, se avversità le città incolsero, i disastri ugualmente gli edifici e i templi colpirono: talché pure da ciò io concludo che non da essi dei i disastri derivano, perché capitarono anche ad essi. 

[10] Sempre il genere umano male meritò della divinità: prima, invero, come non riguardoso di essa, che pur intendendola in parte, non ricercò, ma altri dei da adorare per di più si foggiò; poi perché, il maestro dell'innocenza e il giudice e l'inquisitore della colpevolezza non ricercando, di tutti i vizi e misfatti si ricoperse. 

[11] Invero, se Dio ricercato avesse, ne seguiva che, una volta ricercato, l'avrebbe riconosciuto e, riconosciutolo, l'avrebbe venerato e, venerandolo, propizio più che adirato sperimentato lo avrebbe. Deve dunque sapere che il Dio anche presentemente adirato, è il medesimo che per l'addietro, sempre, prima che il nome dei Cristiani si facesse. 

[12] Se dei benefici di lui godeva, operati prima. che egli si foggiasse i suoi dei, perché non dovrebbe comprendere che anche i mali da Colui gli derivano, al quale non comprese appartenere quei beni? Colpevole è esso verso Colui, verso il quale è ingrato. 

[13] E tuttavia, se i precedenti disastri compariamo, più lievi sono quelli che accadono ora, da che il mondo da Dio i Cristiani ha ricevuto. Da allora, infatti, e persone innocenti hanno le iniquità del mondo temperato, e ad esservi cominciarono degli intercessori davanti a Dio. 

[14] In fine quando d'estate le nuvole le piogge sospendono e l'annata è causa di preoccupazioni, voi, pur ogni giorno ben pasciuti e pronti a rimettervi a tavola, mentre i bagni e le osterie e i postriboli sono pur sempre in attività, aquilici, vittime immolando a Giove, celebrate, al popolo processioni a piedi nudi ordinate, il cielo cercate sul Campidoglio, le nuvole attendete dai soffitti, proprio a Dio e al cielo le spalle voltando. 

[15] Noi, invece, disseccati per i digiuni e da ogni specie di continenza estenuati, da ogni piacere della vita allontanati, di sacco e di cenere avvolti, al cielo bussiamo con la fame, commoviamo Dio: e quando noi gli abbiamo strappata la pietà, da voi vengono resi onori a Giove.

CAPO 41 -- Vostra è la colpa, se disgrazie vi colpiscono, non nostra. Le quali per noi sono, in ogni caso, un salutare ammonimento.

[1] Voi, dunque, di dànno siete all'umanità, voi colpevoli, delle publiche calamità provocatori sempre, tra i quali il Dio vero è disprezzato e si adorano delle statue. E invero deve ritenersi più credibile esser Lui che si adira, il quale viene disprezzato, che coloro, i quali sono venerati. Oppure sono ben ingiusti quelli, se, per cagione dei Cristiani, anche i loro cultori danneggiano, che dovrebbero dai demeriti dei Cristiani separare. 

[2] 'Codesto - dite - si può anche contro il vostro Dio ritorcere, se egli pure permette che, per cagione degli empi, anche i suoi adoratori siano danneggiati'. - Ascoltate prima le sue disposizioni, e non ritorcerete. 

[3] Egli invero, che il giudizio eterno una volta per sempre ha fissato dopo la fine del mondo, non anticipa la separazione, che è condizione del giudizio, prima della fine del mondo. Nel frattempo egli uguale si mostra nei riguardi di tutto il genere umano: benigno e severo. Ha voluto che comuni fossero i benefici agli empi, e i danni ai suoi, affinché in pari consorzio tutti e la sua bontà sperimentassero e la sua severità. 

[4] Poiché codesto essere così proprio da lui abbiamo appreso, ne amiamo la bontà, ne paventiamo la severità; voi, al contrario, l'una e l'altra disprezzate; e ne segue che tutti i flagelli del mondo per noi, se mai, da Dio provengono in ammonimento, per voi in castigo. 

[5] Sennonché noi in nessun modo n'abbiamo danno: in primo luogo perché nulla c'interessa in questo mondo, se non codesto, andarcene al più presto; in se- conda luogo, perché, se qualche avversità ci viene inflitta, alle vostre colpe va attribuita. Ma se pur qualcuna ci tocca, come vostri coabitatori, ci rallegriamo piuttosto, i divini ammonimenti riconoscendovi, confermanti, è chiaro, la fiducia e la fede nel compimento della nostra attesa. 

[6] Che se, invece, tutti i mali capitano a voi da quelli che venerate, per causa nostra, perché a venerare persistete dei tanto ingrati, tanto ingiusti, che aiutarvi e difendervi avrebbero piuttosto dovuto in mezzo al dolore dei Cristiani?

CAPO 42 -- Nemmeno meritano i Cristiani la taccia di gente inutile: essi partecipano a tutte le forme della vostra vita. Non alle festivitd pagane, si capisce. Ma di ciò nessun danno proviene a voi. 

[1] Ma anche per un altro titolo accusati siamo di farvi torto: anche ci si dice inutili agli affari. Come mai si dice questo di uomini, che insieme con voi vivono, a parte della stessa vita, dello stesso vestito, della stessa suppellettile, delle stesse necessità dell'esistenza? Chénon siamo i Bramani o i Gimnosofisti degli Indiani, delle selve abitatori, fuori della vita. 

[2] Ci ricordiamo di dover riconoscenza a Dio, Signore, Creatore; nessun frutto dell'opera sua rifiutiamo; certo ci moderiamo, per non usarne oltre misura o malamente. Perciò non senza usare del foro, del macello, dei bagni, delle botteghe, delle officine, delle stalle, dei vostri mercati e degli altri commerci, con voi coabitiamo in questo mondo. 

[3] Navighiamo noi pure insieme con voi e della milizia facciamo parte e la terra coltiviamo e ugualmente le mercanzie scambiamo e i prodotti delle arti e il nostro lavoro mettiamo in vendita per l'utile vostro. Come si possa sembrare inutili ai vostri affari, con i quali e dei quali viviamo, non comprendo. 

[4] Ma se le tue cerimonie non frequento, sono tuttavia anche in quel giorno un uomo. Non faccio il bagno al primo albore nei Saturnali, per non perdere la notte e il giorno: tuttavia faccio il bagno a un'ora conveniente e salubre, che il calore mi conservi e il sangue. Di intirizzire e di diventar pallido dopo il bagno ho la possibilità dopo morto. 

[5] Non banchetto in pubblico nelle feste Liberali, poiché di farlo hanno costume i bestiarii, quando compiono l'ultimo pranzo: tuttavia pranzo dove che sia, della roba tua usando. 

[6] Non compro una corona da pormi sul capo: che importa a te com'io dei fiori usi, che nondimeno compro? Penso che più gradito torni usarne liberi e disciolti e per ogni verso disordinati: ma pur intrecciati in corona, noi conosciamo la corona per uso delle nari; quelli che annusano per mezzo dei capelli, se la vedano loro. 

[7] Non conveniamo agli spettacoli: tuttavia le cose, che in quelle accolte di gente si vendono, se n'ho desiderio, più liberamente le posso comperare nei luoghi loro propri. Incenso certo non comperiamo: se le Arabie se ne lagnano, sappiano i Sabei che in maggior copia e a più caro prezzo le loro merci vengono consumate per seppellire i Cristiani, che per affumicare gli dei. 

[8] 'Certo - dite - ogni giorno le entrate dei templi si assottigliano: quanto pochi sono coloro che gittano ormai delle monete!' - Gli è che noi non bastiamo a dar soccorso agli uomini e agli dei vostri mendicanti, né crediamo che elargire si debba ad altri, che a quelli che domandano. In somma, stenda Giove la mano e riceva: mentre, intanto, la nostra pietà più impiega distribuendo per i vicoli, che la vostra religione nei templi. 

[9] Ma le altre rendite renderanno grazie ai Cristiani, che il loro debito fedelmente pagano, in quanto dal frodare l'altrui ci asteniamo: talché, se il conto si facesse di quanto va per le entrate perduto a causa della frode e delle menzogne delle vostre dichiarazioni, il conto potrebbe tornare facilmente, riscontrandosi il danno deplorato per un solo titolo, compensato dal vantaggio degli altri computi.

CAPO 43 -- Coloro che in verità possono lagnarsi di non ricevere nessun utile da noi, sono i seduttori, i mezzani, i sicari eccetera; e del pari gl'indovini e gli aruspici.

[1] Confesserò francamente chi sono coloro che, se mai, con verità lagnarsi potrebbero del nessun lucro procurato loro dai Cristiani. Primi verranno i lenoni, i seduttori, i mezzani; indi i sicari, gli avvelenatori, i fattucchieri; del pari gli aruspici, gl'indovini, gli astrologhi. 

[2] Non procurar lucro a costoro è grande lucro. E tuttavia, qualunque sia il pregiudizio che al vostro interesse da questa setta deriva, da qualche vantaggio può essere compensato. Quanto non stimate, non dico già persone che da voi i demonii cacciano, non dico già persone che anche per voi preghiere al vero Dio umiliano, perché forse non ci credete: ma persone, da cui nulla temere potete?

CAPO 44 -- Danno verace per voi è la condanna che pronunciate di tanti innocenti: tra i quali mai non riscontrate un criminale.

[1] Ma in verità quello è un danno per lo Stato, danno tanto grande quanto reale, cui nessuno pone mente; quella è un'offesa alla città, che nessuno considera: il fatto che tanti giusti fra noi siano tolti di mezzo, che tanti innocenti siano fatti morire. 

[2] Chiamiamo infatti in testimonio senz'altro i vostri atti, voi che ogni giorno presiedete al processo dei prigionieri, voi che con le vostre sentenze le accuse specificate. Tanti colpevoli sono da voi passati in rassegna sotto varie imputazioni di delitti: quale sicario in quelle, quale borsaiolo, quale sacrilego o seduttore o ladro di bagnanti, chi tra quelli è al tempo stesso come cristiano annoverato? Oppure, allorché dei Cristiani vi sono a proprio titolo deferiti, chi fra essi è nello stesso tempo tale, quali sono tanti colpevoli? 

[3] Dei vostri sempre rigurgita il carcere, dei vostri sempre i sospiri nelle miniere, dei vostri sempre s'ingrassano le belve, dai vostri sempre gl'imprenditori di spettacoli traggono le mandre di malfattori, che essi nutrono. Nessun Cristiano colà, se non proprio soltanto Cristiano: o, se altra cosa, non più Cristiano.

CAPO 45 -- Noi soli possediamo la vera innocenza: perché nostro maestro è Dio, non, come per voi, un uomo; e la punizione della colpa sarà per noi eterna, non, come per voi, temporanea. 

[1] E allora noi soli siamo innocenti. - Qua! meraviglia, se è inevitabile? E in verità è inevitabile. Avendo appresa l'innocenza da Dio, e la conosciamo perfettamente, come rivelataci da un maestro perfetto, e la custodiamo fedelmente, come impostaci da un giudice che non si può disprezzare. 

[2] A voi, invece, un apprezzamento umano l'innocenza ha insegnato e, del pari, un dominio umano l'ha imposta: perciò né così completa, né tale da farsi altrettanto temere è la vostra disciplina, nei riguardi della innocenza vera. Quanta è la sapienza di un uomo a dimostrare un bene, tanta è la sua autorità a esigerlo: quanto è facile che la prima s'inganni, tanto è facile che la seconda venga disprezzata. 

[3] E in verità, che è più completo, dire: 'Non ucciderai', - oppure insegnare: 'Nemmeno devi adirarti'? - Che è più per- fetto, proibire l'adulterio, oppure rimuovere perfino dalla solitaria concupiscenza dello sguardo? Che è più evoluto, interdire il maleficio, oppure anche la maldicenza?. Che è più sapiente, non permettere l'offesa, oppure nemmeno il contracambio dell'offesa consentire?. 

[4] E dovete tuttavia sapere che anche le stesse vostre leggi, che aver di mira sembrano l'innocenza, la loro forma hanno derivato dalla legge divina, come più antica. Abbiamo parlato già dell'età di Mosè. 

[5] Ma quanto scarsa è mai delle leggi umane l'autorità, se all'uomo spesso di eluderle capita, riuscendo a tener nascoste le sue colpe e, qualche volta, a non farne caso, rendendosi colpevole o volontariamente o costretto? 

[6] Consideratela anche riguardo alla brevità del castigo, che, qualunque sia, tuttavia oltre la morte non durerà. Così anche Epicuro ogni tormento e dolore disprezza, dichiarandolo, se lieve, in verità, da non curarsene, se forte, di non lunga durata. 

[7] E invero noi, che giudicati siamo sotto un Dio, che tutto scruta, e un castigo eterno da lui prevediamo, meritamente i soli siamo che l'innocenza raggiungiamo, e per la pienezza della sapienza e per la difficoltà del rimanere nascosti e per la grandezza del tormento, non di lunga durata, ma eterno; noi, che uno temiamo, cui dovrà temere anche colui che giudica, Dio, non un proconsole.

CAPO 46 -- Voi dite che nulla di diverso insegniamo da quello che insegnano i filosofi. - O perché, allora, non ci trattate come loro? Del resto non è vero che noi si sia uguali ai filosofi. Non abbiamo nulla di comune con loro.

[1] Abbiamo fronteggiato, come credo, gl'intentatori di tutte le accuse, che dei Cristiani il sangue reclamano. Abbiamo dimostrato tutta la nostra condizione, e in qual modo possiamo provare che è così come abbiamo dimostrato: vale a dire, in base all'autorità e antichità delle Scritture divine e, del pari, in base alla confessione delle potenze spirituali. Chi smentirci oserà, non con l'arte della parola, ma nella stessa forma con cui abbiamo stabilita la nostra dimostrazione, in base alla verità? 

[2] Ma mentre a ognuno manifesta si rende la nostra verità, l'incredulità intanto, se ad ammettere la bontà s'induce di questa setta, resa ormai palese dall'esperienza e dai rapporti sociali, una cosa divina assolutamente non lo stima, ma, piuttosto, una specie di filosofia. 'Lo stesso - dicono - consigliano e professano anche i filosofi: innocenza, giustizia, toleranza, moderazione, pudicizia'. - 

[3] O allora, se con quelli ci si compara circa la dottrina, perché del pari a loro non ci si uguaglia nella libertà e impunità della dottrina? Oppure, perché essi pure, come nostri pari, costretti non vengono a prestazioni, che noi con nostro pericolo di compiere omettiamo? 

[4] Chi infatti un filosofo forza a sacrificare o a giurare o ad esporre delle lampade inutili a mezzodì? Che anzi essi, i filosofi, i vostri dei publicamente tentano di distruggere, e le vostre superstizioni nei loro memoriali anche accusano, e voi li lodate. Parecchi pure contro i principi abbaiano, e voi li tollerate; e piuttosto con statue e salarii sono ricompensati, che non alle belve condannati. 

[5] Ma è giusto: si chiamano filosofi, non Cristiani. Davanti a codesto nome di filosofi non fuggono i demoni. Qual meraviglia, dal momento che i filosofi i demoni considerano subito dopo gli dei? E' parola di Socrate: 'Qualora il demone lo permetta'. - Egli anche, che pur qualche parte della verità mostrava di conoscere, degli dei l'esistenza negando, già presso alla fine, di sgozzare tuttavia un gallo ordinava in onore di Esculapio, credo, per rendere onore al di lui padre, in quanto Apollo Socrate dichiarò il più sapiente di tutti. 

[6] O Apollo sconsiderato! Testimonianza rese di sapiente a quell'uomo, che degli dei l'esistenza negava. In quanto la verità di odio ardente è circondata, in tanto colui, che sinceramente la professa, offende; chi, invece, la adultera e la simula, proprio a questo titolo il favore si accaparra presso i persecutori della verità. 

[7] La verità, che i filosofi ingannatori e corruttori, alla maniera degli istrioni, simulano, e col simularla corrompono, come quelli che di guadagnarsi gloria cercano, i Cristiani per necessita la bramano e integralmente la professano, come quelli che della propria salvezza si preoccupano. 

[8] Così né sul punto della scienza, né su quello della disciplina siamo, come credete, uguali. Che cosa di certo, infatti, rispose Talete, quel principe dei fisici, a Creso, che intorno alla divinità lo interrogava, ripetutamente le dilazioni concessegli per deliberare deludendo? 

[9] Dio un qualunque operaio cristiano lo trova e lo prova e, in conseguenza di ciò, tutto quanto si cerca nei riguardi di Dio, anche col fatto conferma, sebbene Platone asserisca che il fattore dell'universo non è facile scoprirlo e, scopertolo, è difficile spiegarlo alla generalità. 

[10] Del resto, se sul punto della pudicizia ci si sfida, leggo che in una parte della sentenza pronunziata dagli Ateniesi contro Socrate, costui fu dichiarato corruttore dei giovani: nonché il sesso, nemmeno la donna muta il Cristiano. Conosco anche una Frine, meretrice, bruciante di passione per Diogene distesole sopra. Sento dire che anche uno Speusippo, della scuola di Platone, però colto in adulterio: il Cristiano nasce maschio solo per la sua sposa. 

[11] Democrito, accecando se stesso, per non poter guardare le donne senza concupiscenza e senza soffrire, qualora non le avesse possedute, col castigo inflittosi la propria incontinenza professa: [12] il Cristiano, invece, pur conservando gli occhi, le femmine non le vede: nei riguardi della libidine il suo animo è cieco. 

[13] Se debbo sul punto della probità difendermi, ecco un Diogene, che con i piedi infangati con altra superbia i superbi tappeti di Platone calpesta: il Cristiano nemmeno verso un povero insuperbisce. Se sul punto della moderazione debbo battermi, ecco un Pitagora in Turii, un Zenone in Priene, che alla tirannide aspirano: un Cristiano nemmeno alla edilità aspira. 

[14] Se la discussione debbo accettare su la imperturbabilità, Licurgo di morir di fame desiderò, perché i Laconi le sue leggi avevano modificato: il Cristiano, anche condannato, ringrazia. Se sul punto della lealtà debbo fare un confronto, Anassagora il deposito agli ospiti negò: il Cristiano anche dagli estranei è chiamato fedele. 

[15] Se sul punto della lealtà debbo fermarmi, Aristotele fece in modo indegno dalla carica decadere l'amico suo Ermia: il Cristiano nemmeno il suo nemico danneggia. Lo stesso Aristotele tanto vergognosamente Alessandro adula, che doveva piuttosto guidare, quanto Platone da Dionisio vendere si fa per la sua ghiottoneria. 

[16] Aristippo in porpora, sotto la parvenza di grande gravità, scialacqua e Ippia si fa uccidere, mentre alla città insidie prepara. Codesto nessun Cristiano mai tentò per difendere i suoi, con ogni atrocità perseguitati. 

[17] Ma si dirà che anche dei nostri qualcuno dalla regola della disciplina si allontana. - è vero: però cessano di essere tra di noi considerati Cristiani. Invece quei filosofi, pur con tali fatti, a essere denominati sapienti e onorati come tali continuano. 

[18] Che dunque di simile fra un filosofo e un Cristiano, fra un discepolo di Grecia e un discepolo del cielo, tra chi per la fama e chi per la vita traffica, fra un operatore di parole e un operatore di fatti, fra un edificatore e un distruttore, fra un amico e un nemico dell'errore, fra un adulteratore e un reintegratore e assertore della verità, fra chi n'è ladro e chi n'è custode?.

CAPO 47 -- Quello che di vero si trova detto dai filosofi, lo hanno attinto dall'antica Scrittura. Pur troppo l'hanno spesso frainteso o adulterato. 

[1] Più antica di ogni cosa è la verità, se non m'inganno; or ancora mi torna utile l'antichità, sopra stabilita, della divina Scrittura, affinché facilmente si creda che essa il tesoro fu per ogni sapienza venuta dopo. E se non volessi limitare ormai la mole di questo lavoro, farei una scorsa anche nel campo di codesta dimostrazione. 

[2] Qual dei poeti, qual dei filosofi, che alla fonte dei profeti non siasi per nulla abbeverato? Di qui pertanto i filosofi la sete della loro intelligenza irrigarono; talché è quello che hanno del nostro, che simili ci fa a loro. Perciò, penso, anche, da taluni la filosofia fu discacciata, dico da quei di Tebe e di Sparta e di Argo. 

[3] Mentre di arrivare alla comprensione della verità in nostro possesso uomini solo di gloria però bramosi, come ho detto, e di eloquenza, si sforzavano, se nei Libri Santi s'incontrarono in qualche cosa che il loro istinto di curiosità appagasse, lo convertirono in proprio: né abbastanza credendo che si trattasse di roba divina, così da non doverla interpolare, né sufficientemente intendendola, come tuttora alquanto velata e oscura anche per gli stessi Giudei, di cui la credevano proprietà. 

[4] E invero, anche se di verità semplici si trattava, tanto più l'umana sottigliezza, negandovi fede, tentennava, per cui con l'incerto mischiarono anche quello che trovato avevano di certo. 

[5] Avendovi trovato, così senz'altro, che esiste un Dio, non ne disputarono come l'avevano trovato: talché della sua qualità e natura e sede si mettono a discutere. 

[6] Altri incorporeo lo affermano, altri corporeo, come tanto i Platonici, quanto gli Stoici; altri da atomi costituito, altri da numeri, come Epicuro e Pitagora; altri da fuoco, come opinò Eraclito; e i Platonici pensoso dell'universo, gli Epicurei, invece, ozioso e inattivo e, per così dire; inesistente per il mondo degli uomini; [7] posto, poi, fuori del mondo gli Stoici, a far girare dal di fuori questa mole a mo' di vasaio; entro il mondo i Platonici, a mo' di pilota rimanendo in quello che egli guida. 

[8] Così variamente nei riguardi del mondo stesso concludono: se sia nato o non nato, se destinato a finire o a restare. Così anche della condizione dell'anima: che altri divina ed eterna, altri affermano destinata a dissolversi. Come ognuno la intese, così aggiunse o riformò. 

[9] Né fa meraviglia, se il vecchio strumento gl'ingegni dei filosofi snaturarono. Anche questo nostro documento alquanto recente alcuni individui, provenienti dalla semenza di quelli, hanno con le loro opinioni adulterato secondo le opinioni dei filosofi, e da una strada unica aperto molti obliqui e inestricabili sentieri. Il che per questo ho soggiunto, perché la nota varietà di questa nostra setta adeguarci anche in questo ai filosofi a qualcuno non paia, dalla varietà non concluda la deficenza di una verità. 

[10] Ma ai nostri adulteratori alla svelta eccepiamo che la regola della verità è quella che viene da Cristo, attraverso coloro trasmessa che gli furono compagni, parecchio posteriori ai quali si proverà essere codesti diversi interpreti. 

[11] Tutto ciò che contro la verità è stato ricostruito, è stato fatto valendosi della verità stessa; e quest'opera ostile gli spiriti dell'errore l'hanno compiuta. Da costoro gli adulteratori di questa salutare disciplina subornati furono; da costoro anche introdotte certe favole, che su la base della somiglianza la fede nella verità infirmassero o a se stessi piuttosto l'attirassero: talché per questo si stimi non doversi credere ai Cristiani, perché nemmeno s'ha da prestar fede néai poeti né ai filosofi; o perché piuttosto s'abbia a credere ai poeti e ai filosofi, perché prestar fede non si deve ai Cristiani. 

[12] Perciò veniamo derisi, quando predichiamo che Dio ci giudicherà. Allo stesso modo, infatti, e poeti e filosofi un tribunale collocano presso gl'inferi. E se la gehenna minacciamo, che è un ambiente sotterraneo di fuoco arcano, destinato alla punizione, ugualmente si sghignazza. Allo stesso modo, infatti, fra i morti c'è il fiume Piriflegetonte. 

[13] E se il paradiso nominiamo, luogo di divina bellezza, ad accogliere destinato gli spiriti dei Santi, dalla conoscenza dell'orbe comune separato per una specie di muro costituito dalla nota zona di fuoco, troviamo le menti occupate dalla credenza nei Campi Elisi. Onde, vi prego, tante somiglianze con i poeti e i filosofi? Non per altro se non perché derivate dai nostri misteri. 

[14] Se dai nostri misteri esse sono derivate, come esistiti prima, più fedeli e credibili sono dunque questi nostri, le cui imitazioni anche trovano fede. Se sono derivate dalle fantasie di quelli, allora i nostri misteri si riterranno senz'altro immagini di cose venute dopo, ciò che la natura non comporta; ch mai l'ombra la presenza del corpo precede, né l'immagine quella della realtà.

CAPO 48 -- Gli uomini risorgeranno, riprendendo ciascun'anima il proprio corpo. Nulla è impossibile a Dio, che l'universo fece dal nulla. La risurrezione è richiesta dalla necessità che ciascuno sia retribuito secondo il suo merito.

[1] Orsù, se un filosofo affermi, come Laberio dice in base al pensiero di Pitagora, che da un mulo si forma un uomo, un serpente da una donna, e, a conferma di quella opinione, tutti gli argomenti scagli con l'efficacia della sua eloquenza, non riscuoterà l'assenso, radicando di ciò la credenza, talché uno si persuada anche ad astenersi dagli animali per questo, per non cibarsi, alle volte, di una vitella proveniente da un qualche suo avo? Ma se un Cristiano promette che da un uomo ritornerà un uomo, anzi da Gaio Gaio in persona, non solo a calci, ma piuttosto a sassate sarà dal popolo cacciato. 

[2] Se un qualunque motivo regge l'opinione che le anime umane passino d'uno in altro corpo, perché non dovrebbero nella medesima sostanza ritornare, codesto significando 'essere richiamato in vita', 'essere quello che si era stati'? E invero, se non sono quello che erano state, vale a dire di un corpo umano, anzi di quello stesso corpo rivestite, non saranno più quelle ch'erano state. O allora quelle che non saranno più le stesse, come si dirà che sono ritornate? O, divenute altro, non saranno più le stesse, o perdurando le stesse, non saranno provenienti da altra parte. 

[3] Molti passi di scrittori anche avrei bisogno di citare con comodo, se su codesto punto divertirmi volessi, in quale bestia uno paresse doversi trasformare. Ma più conformemente alla credenza da noi sostenuta, affermiamo - certo molto più degno di essere creduto - che da un uomo un uomo ritornerà, un uomo per ogni uomo, ma sempre uomo: talché la medesima qualità di anima nella medesima condizione venga rimessa, se non nella medesima figura. 

[4] Vero è che, poiché il motivo della restaurazione è la destinazione derivante dal giudizio, necessariamente proprio quello stesso si ripresenterà, che prima era stato, per riportare da Dio il giudizio delle azioni buone e delle contrarie. Perciò anche i corpi saranno ricostituiti, perché nemmeno può patir nulla l'anima da sola, senza una materia stabile, cioè la carne; e perché quello che, per giudizio di Dio, le anime patire debbono, non lo meritarono affatto senza la carne, entro la quale ogni loro atto compirono. 

[5] 'Ma come - dirai - una materia caduta in dissoluzione ripresentarsi potrà?' - Considera te stesso, o uomo: e la cosa credibile troverai. A quello che eri, prima di essere, ripensa. Certo eri niente. Te ne ricorderesti, infatti, se qualche cosa fossi stato. Orbene, tu che nulla, prima di essere, eri stato e nulla, del pari, sei divenuto, quando hai cessato di essere, perché non potresti essere nuovamente dal nulla, per volontà proprio di quello stesso autore, che volle che tu fossi dal nulla?. 

[6] Che ti accadrà di nuovo? Tu che non eri, sei stato fatto; quando di nuovo non sarai, sarai fatto. Spiega, se puoi, il modo, con cui sei stato fatto; e poi ricerca in qual modo sarai fatto. E tuttavia, certo, più facilmente quello che una volta sei stato ridiventerai, perché del pari senza difficoltà una volta sei divenuto quello che non fosti mai. 

[7] Si dubiterà, credo, della potenza di Dio, che codesto gran corpo del mondo da ciò che non era costituì, non altrimenti che se si fosse trattato di trarlo dalla morte del vuoto e del nulla: animato da uno spirito che tutte le cose animò, esempio anch'esso palese per testimoniare a voi la resurrezione degli uomini. 

[8] La luce, ogni giorno uccisa, risplende; e le tenebre con pari vicenda decedono e succedono; le stelle muoiono e ritornano in vita, le stagioni dove hanno fine cominciano, i frutti si consumano e ritornano, i semi certo solo dopo la corruzione e la dissoluzione in forma più feconda risorgono; tutte le cose col perire si conservano, tutte col morire si ricostituiscono. 

[9] Tu, uomo, così gran nome, se te stesso conosca apprendendolo almeno dall'iscrizione della Pithia, padrone di tutte le cose che muoiono e rinascono, per codesto fine morrai, per perire?. Dovunque in dissolvimento sarai caduto, qualunque materia ti avrà distrutto, assorbito, annientato, ridotto al nulla, ti restituirà. A Colui si appartiene pur il nulla, a cui anche il tutto. 

[10] 'Dunque - voi dite - si dovrà continuamente morire e continuamente risorgere?'. - Se così il Signore dell'Universo stabilito avesse, anche tuo malgrado la legge della tua condizione sperimenteresti. Sennonché ora non altrimenti stabili da come predisse. 

[11] Quella Intelligenza, che dalla diversità l'università compose, così che tutte le cose da contrari elementi in unità risultassero, di vuoto e di solido, di animato e di inanimato, di afferrabile e di inafferrabile, di luce e di tenebre, della vita stessa e della morte, quella stessa Intelligenza il tempo anche collegò secondo una condizione distinta: talché questa prima parte, quella in cui dal principio del mondo noi abitiamo, con durata temporanea verso la fine defluisca, la seguente, che noi attendiamo, nell'eternità infinita si continui. 

[12] Quando, dunque, la fine sarà venuta e il limite, che si spalanca in mezzo alle due età, talché anche del mondo stesso si trasformi l'aspetto, ugualmente temporaneo, che, a mo' di sipario, si stende davanti a quella eternità da Dio stabilita, allora tutto il genere umano sarà restituito, per regolare il conto di quello che di bene o di male commise in questa età e, quindi, averne la retribuzione per l'immensa perpetuità dell'eternità. 

[13] Perciò non morte più, né di nuovo resurrezione ci sarà; ma saremo gli stessi che ora, né altri in seguito: gli adoratori di Dio presso Dio sempre, della sostanza propria dell'eternità rivestiti; gli empi, invece, quelli non irreprensibili davanti a Dio, nel castigo del fuoco ugualmente perenne, dalla natura stessa di questo divina, è chiaro, ricevendo la partecipazione dell'incorruttibilità. 

[14] Sanno anche i filosofi la diversità tra un fuoco arcano e quello comune. Pertanto di gran lunga diverso è quello che all'uso comune serve, diverso quello che al giudizio di Dio obbedisce: sia che dal cielo esso fuoco i fulmini scagli, sia che dalla terra attraverso le vette dei monti erutti. Infatti non consuma quello che brucia, ma mentre annienta, ricostituisce. 

[15] Pertanto i monti permangono, pur sempre ardendo; e chi dal fulmine è colpito, resta intatto, talché da nessun fuoco più in cenere è ridotto. Or questo sarà testimonio del fuoco eterno, questo, esempio del giudizio eterno che alimenta il castigo: i monti sono bruciati e permangono. Che sarà dei colpevoli e dei nemici di Dio?

CAPO 49 -- Deridete pure le nostre credenze: non potete però negare ch'esse sono utili. In ogni caso non giustificano la vostra persecuzione.

[1] Questi sono quelli che in noi soli pregiudizi si chiamano, nei filosofi e nei poeti, invece, somme verità scientifiche e frutti d'ingegni insigni. Quelli sapienti, noi stolti; quelli degni di essere onorati, noi di essere irrisi, anzi, più ancora, di essere puniti. 

[2] Ora sia pur falso quello che noi difendiamo, e giustamente un pregiudizio: però necessario; sciocchezza: però utile, se è vero che a diventare migliori sono costretti coloro che vi credono, per il timore dell'eterno castigo e la speranza dell'eterna felicità. Perciò non giova dichiarare falsità e ritenere sciocchezza quello che è utile presumere come vero. A nessun titolo è lecito condannare in modo assoluto quello che giova. 

[3] Perciò siete voi che avete un pregiudizio: proprio questo, che cose condanna, le quali sono utili. Almeno, se pur false e sciocche, a nessuno, tuttavia, sono di danno. E invero sono esse simili a molte altre cose vane e favolose, a cui nessun castigo irrogate, senza accusa e punizione lasciandole, come inoffensive. 

[4] Ma pure in codesto campo, se mai, si deve giudicare la cosa meritevole di derisione, non di spada e di fuoco e di croci e di belve. Per questa crudeltà iniqua non solo codesto volgo cieco esulta e insulta, ma anche alcuni di voi, che con l'ingiustizia di acquistare cercano il favore del volgo, si gloriano, quasi che quello che potete su di noi, non dipenda tutto dalla volontà nostra. 

[5] Certo, qualora io lo voglia, sono Cristiano. Allora dunque tu mi condannerai, qualora io lo voglia. Ora quando quello che su di me puoi, qualora, io nol voglia nol puoi, si appartiene senz'altro alla mia volontà quello che tu puoi, non alla tua potestà. 

[6] Allo stesso modo anche il volgo vanamente della nostra persecuzione gode. Allo stesso modo, infatti, nostro è il godimento che egli a sè rivendica, di noi, che essere condannati preferiamo, piuttosto che incorrere nella privazione di Dio. Al contrario coloro che ci odiano, non rallegrarsi dovrebbero, ma dolersi, avendo noi conseguito quello che abbiamo scelto.

CAPO 50 -- La vittoria nel resistere alle vostre persecuzioni è nostra. Continuate pure. Il sangue dei martiri è semenza di Cristiani.

[1] 'Dunque - voi dite - perché vi lamentate che noi vi si perseguiti, se patire volete, mentre amare coloro dovreste, per opera dei quali patite quello che volete?'. - Certo noi patire vogliamo, ma alla maniera, in cui, anche, la guerra il soldato patisce. Nessuno, invero, volentieri la patisce, essendo necessario trepidare e correre pericolo. 

[2] Tuttavia e combatte con tutte le forze e, vincendo in battaglia, gode colui che della battaglia si lamentava, perché gloria consegue e preda. Battaglia è per noi il fatto di essere davanti ai tribunali chiamati, per combattere là, con pericolo di morte, per la verità. Vittoria è poi conseguire quello, per cui si è combattuto. Quella vittoria e contiene la gloria di piacere a Dio e la preda di vivere eternamente. 

[3] 'Ma abbiamo la peggio'. - Però, dopo aver conseguito. Dunque siamo noi che abbiamo vinto, quando ci si uccide. Finalmente ne siamo fuori, quando abbiamo la peggio. Potete ora esseri da sarmenti chiamarci e gente da mezzo asse, perché, legate dietro le mani a un palo fatto di un asse dimezzato, veniamo circondati da sarmenti e bruciati. Codesto è il portamento proprio della nostra vittoria, questa la veste palmata, tale il cocchio sul quale trionfiamo. 

[4] Giustamente, dunque, noi non si piace a dei vinti: per questo infatti dei disperati e dei perduti reputati siamo. Ma questi atti propri di gente perduta e disperata, tra voi il vessillo innalzano del valore, quando è in causa gloria e fama. 

[5] Mucio la sua destra volonteroso su l'ara lasciò: o animo sublime! Empedocle dono di sè interamente fece alle fiamme dell'Etna: o anima vigorosa! Una fondatrice di Cartagine il secondo matrimonio sacrificò al rogo: o esaltazione della castità! 

[6] Regolo, per non vivere egli solo e il vantaggio fare di molti nemici, tormenti in tutto il corpo patisce: o eroe, vincitore pur nella prigionia! Anassarco, venendo pestato a morte con un pestello da orzata, 'Pesta, pesta - diceva - l'involucro di Anassarco, ché Anassarco non pesti': o grandezza d'animo del filosofo, che su tale sua morte anche scherzava! 

[7] Tralascio coloro che con la propria spada o un altro genere più mite di morte la gloria patteggiarono. Ecco, infatti, anche gare di tormento sono da voi coronate. 

[8] Una meretrice ateniese, dopo avere stancato ormai il carnefice, da ultimo la lingua sua troncata in faccia al tiranno inferocito sputò, per sputar fuori anche la voce, al fine di non poter rivelare i congiurati, anche se, vinta, avesse voluto farlo. 

[9] Zenone di Elea, da Dionisio interrogato che cosa la filosofia procurasse, rispose: 'Il disprezzo della morte'. - Sottoposto dal tiranno allo staffile, impassibile la sua sentenza suggellava fino alla morte. Certo le fiagellazioni dei Laconi, rese anche più penose perché sotto gli occhi dei parenti incoraggianti a resistere, conferiscono alla casa tanto onore di resistenza, quanto è il sangue che hanno sparso. 

[10] O gloria lecita, perché umana, per cui né a presunzione rovinosa, né a persuasione disperata si attribuisce il disprezzo della morte e delle atrocità di ogni specie; talché per la patria, per la potenza, per l'amicizia patire lice tanto, quanto non lice per Dio! 

[11] E intanto a tutte quelle persone e statue profondete e su le loro immagini inscrizioni ponete e titoli incidete per procurar loro l'immortalità. è chiaro: per quanto potete farlo con i monumenti, voi pure ai morti una resurrezione in certo modo procurate. Colui, invece, che questa resurrezione veracemente spera da Dio, qualora per Dio patisca, è un folle. 

[12] Ma continuate pure, o buoni governatori: ché molto migliori agli occhi del popolo diventerete, se dei Cristiani gli immolerete. Tormentateci, torturateci, condannateci, stritolateci: la vostra iniquità infatti della nostra innocenza è prova. Per questo Dio tollera che noi codesto si patisca. E invero anche recentemente col condannare una Cristiana al lenone, piuttosto che al leone, avete confessato che la macchia recata al pudore più atroce di ogni castigo e di ogni morte è tra di noi considerata. 

[13] Né tuttavia giova a nulla ogni vostra più raffinata crudeltà: è piuttosto un'attrattiva alla setta. Più numerosi diventiamo, ogni volta che da voi siamo mietuti: è semenza il sangue dei Cristiani. 

[14] Molti tra di voi il dolore e la morte a sopportare esortano, come Cicerone nelle Tusculane, come Seneca nei Casi fortuiti, come Diogene, come Pirrone, come Callinico. Né tuttavia le parole tanti discepoli trovano, quanti i Cristiani ne ottengono ammaestrando con i fatti. 

[15] Quella stessa ostinazione che ci rimproverate, fa da maestra. Chi, infatti, considerandola, non si sente scosso a ricercare che cosa ci sia in fondo alla cosa? E quando ha indagato, chi non vi accede?. E quando vi è acceduto, chi non brama patire, per acquistarsi la pienezza della grazia di Dio, per ottenere intero da lui il perdono a prezzo del proprio sangue? 

[16] Ché tutte le colpe a questo atto sono condonate. Da ciò il fatto che lì sul posto, noi vi rendiamo grazie per la vostra sentenza. Come v'è contrasto fra il divino e l'umano, quando da voi siamo condannati, da Dio siamo assolti.


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